Industria 4.0: non sprechiamo l’opportunità di sognare

Pubblicato il 28 Dic 2016

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di Sergio Terzi*

Un paio di settimane prima di Natale, mentre il resto dei milanesi si preparava al ponte di Sant’Ambrogio, ho avuto modo di partecipare ad un evento promosso da Unindustria Como sulla tematica dell’industria 4.0, portando una relazione introduttiva.

L’invito, arrivatomi direttamente dal Responsabile Ricerca e Innovazione che avevo conosciuto ad un precedente workshop, mi ha fatto molto piacere. Sono molto legato, anche per mere ragioni familiari, al territorio comasco e mi è parsa una buona opportunità di servizio, ruolo che si dovrebbe ben addire al mio essere professore universitario. Non si è trattato di una cosa nuova, almeno per me: in questi ultimi mesi di eventi di questo genere ne ho fatti molti – direi più di una quindicina – sintomo palese di un emergente interesse e di una crescente curiosità verso questo argomento.

A Como – come in tutti gli altri eventi cui ho partecipato in questo autunno caldo dell’industria italiana, dai piccoli workshop provinciali, ai grandi eventi federali – il pubblico era composto da imprenditori e dirigenti tra l’incuriosito e lo spaesato, qualche consulente alla ricerca di un proprio posizionamento, e un po’ di studenti e studiosi in fase di comprensione.

Qui, come in altre occasioni, non penso di aver risposto ai mille dubbi di tutti, un po’ per miei limiti, un po’ perché penso che alcune risposte debbano arrivare da più voci (fornitori, industriali, professionisti, ecc.), ma qualche riflessione penso di averla stuzzicata (non a caso in diversi mi hanno poi cercato, anche solo per un confronto). Ma in questa occasione mi è arrivata una domanda secca, da un profilo molto chiaro:

Sono un contoterzista [lavorazioni meccaniche, ndr]. Per me tutta questa cosa dell’Industria 4.0 – grazie ai superammortamenti della Finanziaria – mi permetterà di comprare un CNC nuovo. Non vedo altre opportunità. Lei ne vede?

Al di là di un mio timido tentativo di indagare altre possibilità, ad esempio per introdurre dei software di prototipazione e sperimentazione, non ho potuto che dargli ragione. La domanda – o meglio la posizione espressa nella domanda stessa – però mi è rimasta nella testa, e mi ha innestato un tarlo dubbioso, che mi ha accompagnato anche nelle vacanze natalizie. Possibile che tutto questo cancan mediatico dell’Industria 4.0 si debba ridurre, come per qualsiasi bonus edilizio o energetico, ad un semplice cambio del parco macchine? Lo dico anche da un punto di vista più personale: possibile che tutte le ricerche degli ultimi 15 anni (perché questo è il tempo da cui mi occupo di ciò che oggi chiamiamo Industria 4.0), nel mercato si trasformino solo in macchine nuove da vendere e installare?

Sergio Terzi, Politecnico di Milano, School of Management, Manufacturing Group

Non che la cosa in sé sia oscena, intendiamoci. L’Italia è un produttore di macchine speciali e di sistemi produttivi di non poco conto (a seconda dei comparti ce la giochiamo nei primi 3-4 posti del podio mondiale) e una spinta alla domanda interna non può che rafforzare la posizione di mercato delle nostre imprese produttrici. Conosciamo poi gli intrinseci limiti di produttività che il nostro Paese lamenta, quindi un po’ di efficienza produttiva spinta da un ammodernamento tecnologico di certo non guasta. Ma dobbiamo limitarci solo a questo?

Non voglio fare l’esegesi di cosa sia o non sia Industria 4.0. Lo trovo un gioco un po’ troppo accademico, anche per un universitario come me. Ma ridurre il tutto solo a delle macchine nuove, anche se controllabili via tablet e smartphone mi pare troppo limitante. E mi pare soprattutto un enorme spreco! Il 4.0 non è stato scelto a caso: serve a dare l’idea di avanzato, di futuro. E qual è la fabbrica del futuro in cui tutti noi vorremmo lavorare (e che oggi è potenzialmente realizzabile, grazie anche le evoluzioni tecnologiche)? È solo una fabbrica “connessa”, con iPad a bordo macchina con cui giochicchiare? Oppure è una fabbrica sicura, pulita, ordinata, affidabile, in cui sia bello (o per lo meno non brutto) lavorare? Un sistema a misura di uomo e anche di ambiente, che ci aiuti certamente a competere, ma che non ci depauperi del nostro ruolo di decisori, di creatori e di lavoratori?

So di mettere insieme molte cose, per alcuni al limite della fantascienza (“Un ambiente dove sia bello lavorare, ma dai! In fabbrica si produce, mica si gioca!” commenteranno alcuni), ma questo vuol dire fare un passo in avanti, attuare la rivoluzione che in molti oggi sognano e qualcuno già realizza.

Lei vede altre opportunità?” Sì, ne vedo molte. Possiamo lavorare con i nostri dipendenti per creare un ambiente produttivo più efficiente, ma allo stesso tempo umano (mai sentito parlare di Lean Manufacturing?). Possiamo pensare a come conciliare ambiente e produzione (risparmio energetico, riduzione dei rifiuti e gestione accorta delle scorie). Possiamo ragionare su come lavorare meglio con i nostri clienti, riducendo contenziosi e costruendo partnership profittevoli (condividendo informazioni e tempo, offrendo servizi, di fianco ai nostri prodotti).

Mi rendo conto di non offrire facili ricette. Anzi, mi sento nell’antipatica posizione di rispondere a domande con altre domande. Ma penso che competa a persone nel mio ruolo (noi accademici siamo pagati – anche – per pensare un po’ fuori dal coro, per un lavoro che prima di tutto è una passione). Mi rendo conto di spostare il discorso dal reale all’immaginifico, almeno a primo acchito. Ma chi ha mai detto che sognare il futuro non serva? Se chi ci ha preceduto non avesse sognato ciò che ancora non c’era, non saremmo dove siamo oggi. Certo, non possiamo illuderci che il tutto sia semplice e non costi nulla. Anzi, costa fatica e tempo. E non tutto ciò è superammortizzabile.

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Redazione

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