In Italia occupazione al massimo storico, ma il 2020 si apre in calo

L’occupazione in Italia tocca il massimo storico: nel terzo e quarto trimestre 2019 si attesta infatti a 23,4 milioni di unità. Lo rileva l’Istat nel rapporto sul mercato del lavoro del 2019. Ma la comparsa del Coronavirius provocherà inevitabilmente un’inversione di tendenza nel mercato del lavoro.

Pubblicato il 09 Mar 2020

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L’occupazione in Italia tocca il massimo storico: nel terzo e quarto trimestre 2019 si attesta infatti a 23,4 milioni di unità. Tuttavia, i dati preliminari sui mesi di dicembre e gennaio prevedono un calo del numero di occupati nel nostro Paese. Lo rileva l’Istat nel rapporto sul mercato del lavoro del 2019.

Il 2019 si è infatti chiuso all’insegna dei numeri positivi sul fronte dell’occupazione nell’area euro: il tasso di disoccupazione è ancora una volta diminuito, toccando il 7,4% nel dicembre scorso. Un andamento che inevitabilmente subirà un’inversione di tendenza, secondo l’Istat, causata soprattutto dalla comparsa del Coronavirus a gennaio 2020, che avrà “un impatto sfavorevole anche sul mercato del lavoro”.

Nel terzo trimestre del 2019 il Pil dell’Italia ha registrato per la quarta volta consecutiva una crescita congiunturale dello 0,1%, mentre nel quarto trimestre è calato dello 0,3% rispetto al trimestre precedente, mantenendo una variazione positiva (+0.1%) nel raffronto su base annua.

Poche ore lavorate e divario Italia-Ue in crescita

Nel quarto trimestre del 2019 continua la crescita tendenziale delle ore lavorate in Italia (+0,3%), mentre la variazione congiunturale è di segno negativo (-0,3%), con un’inversione di tendenza rispetto all’input di lavoro del trimestre precedente, il cui valore di crescita congiunturale era +0,4% (con una crescita tendenziale dello 0,5%).

Dati che confermano la tendenza nel nostro Paese a una crescita dell’occupazione a bassa intensità lavorativa: cresce il numero di occupati ma la quantità di lavoro utilizzato rimane nettamente inferiore, soprattutto a causa della riduzione del lavoro a tempo pieno. Inoltre, se il divario generazionale in favore dei più adulti continua ad aumentare, non migliora sensibilmente la situazione delle donne: la metà di quelle in età attiva infatti non lavora, e quasi una donna su cinque vorrebbe lavorare ma non trova un impiego.

Anche a livello territoriale, le differenze tra centronord e sud dell’Italia non migliorano: il divario del tasso di occupazione nella media dei primi tre trimestri del 2019 supera i 20 punti. Nel meridione, la minore domanda di lavoro riguarda i settori dell’industria, dei servizi alle imprese, dell’istruzione e nella sanità.

Tutti questi elementi contribuiscono inevitabilmente ad aumentare le differenze tra la situazione italiana e la media europea: il divario nel tasso di occupazione tra Italia e Ue è salito a 10,2 punti nel terzo trimestre del 2019 (nel primo trimestre del 2014 era di 8,9 punti).

Part time per necessità, non per scelta

In Italia la crescita degli occupati a tempo parziale (saliti a 4,3 milioni nel 2018, il 18,6% del totale) rimane legata più alle strategie delle imprese che alle esigenze degli individui, rivestendo un ruolo di sostegno all’occupazione nei periodi di calo del tempo pieno. Nel nostro Paese, infatti, nel decennio 2008-2018, la quota di occupati part time che dichiara di non aver trovato un lavoro a tempo pieno è passata dal 40,2% al 64,1%, mentre in Europa la tendenza è inversa: si è passati dal 24,5% al 23,4%.

Sono ben 5,5 milioni i dipendenti italiani che nel 2018 sono stati interessati per almeno un giorno da rapporti di lavoro part time (di cui 4,6 milioni coinvolti in maniera esclusiva). Una crescita dovuta sia al maggior ricorso a questo strumento, sia al rafforzamento dello stesso nelle imprese che già lo usavano: rispetto al 2014 le imprese con dipendenti a occupazione esclusivamente full time sono diminuite del 14%. Al contrario, quelle con solo dipendenti part time sono cresciute del 12%, mentre le aziende che utilizzano entrambe le tipologie registrano un +9%.

Come abbiamo visto, spesso si tratta di un vero e proprio part time involontario (diffuso soprattutto nei servizi alle famiglie e nelle professioni non qualificate), che nel meridione sfiora l’80% dei casi contro il 58,7% del centro nord, e che anche in questo caso colpisce maggiormente le donne, le quali hanno una possibilità tre volte superiore rispetto a un uomo di essere in part time involontario.

Nel 2018 meno licenziamenti, quasi sempre dovuti a motivi economici

Nel quinquennio 2014-2018, i licenziamenti relativi a rapporti di lavoro a tempo indeterminato sono passati da 647.000 a 579.000, con un relativo calo della quota riferita al totale delle cessazioni (passata dal 42% al 36%). È aumentato, di conseguenza, il peso delle dimissioni, passato dal 48% al 53% del 2018.

Nell’anno in considerazione, infatti, tra i motivi di cessazione di contratti a tempo indeterminato, le dimissioni restano quello principale (54%), seguito dai licenziamenti economici (31,6%). I licenziamenti disciplinari sono pari al 4,7%, le risoluzioni consensuali al 2,2%, mentre il 7,4% è rappresentato da altri motivi.

Tra le motivazioni dei licenziamenti, il 90% circa dei casi è dovuto a motivi economici, anche se l’incidenza di quelli disciplinari sul totale è in crescita: dal 7,4% del 2014 al 13% del 2018. Inoltre, sono le piccole imprese ad essere maggiormente coinvolte nei licenziamenti, il 62% dei quali nel 2018 è avvenuto proprio in questa tipologia di azienda. Ciò nonostante, per ogni dipendente a tempo indeterminato licenziato, i datori di lavoro hanno attivato 1,2 nuovi contratti dello stesso tipo: un dato trainato dalle grandi imprese, dove il rapporto è in ragione di 2,0.

In Italia è soprattutto nel lavoro di breve durata che può avvenire il licenziamento: nel 2018 più di un terzo dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato interrotti per licenziamento ha la durata inferiore a un anno, mentre quelli avvenuti entro tre mesi dall’assunzione 10,8% del totale) sono più frequenti tra i giovani fino ai 29 anni (18,8%).

Boom di tirocini nel quinquennio 2014-2018: sono 349.000

Negli ultimi anni l’istituto del tirocinio ha visto un incremento notevole, sia nel numero di esperienze avviate che in quello di imprese che delle tipologie di soggetti e beneficiari coinvolti. In Italia, si è passati dai 227.000 tirocini attivati nel 2014 ai 349.000 del 2018, con un incremento del 53,9%. Nel quinquennio il numero totale è stato di 1.615.000 tirocini attivati.

Una crescita che ha coinvolto anche il numero di individui coinvolti, cresciuto dal 2014 al 2018 del 57,1% (per un totale di 1.158.000), con un tasso di inserimento a un anno dal termine dell’esperienza vicino al 60%. Anche il numero delle imprese che hanno utilizzato questo istituto è salito: nel 2014 erano 101.000, nel 2017 sono state 174.000.

Da notare, inoltre, che i tirocini con più elevati livelli di competenza si svolgono presso imprese di maggiori dimensioni e in quelle attive in settori economici con un alto livello tecnologico.

La nuova figura del dependent contractor

L’Italia è al terzo posto in Europa per quota di lavoratori indipendenti, preceduta solo da Grecia e Romania. Nel nostro Paese nel 2018 i lavoratori indipendenti sono circa 5 milioni (il 21,7% degli occupati), ma nel decennio 2008-2018 l’occupazione autonoma si è ridotta del 9,5% (con 558.000 unità in meno). Quella dipendente è invece cresciuta del 4% (con 682.000 unità in più).

Inoltre, l’11,5% degli indipendenti senza dipendenti (calcolato nella media dei primi tre trimestri del 2019) è rappresentato da una nuova figura, istituita dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il dependent contractor: occupato formalmente autonomo ma vincolato da rapporti di subordinazione con un’altra unità economica (cliente o committente) che ne limita l’accesso al mercato e l’autonomia organizzativa. Le professioni maggiormente rappresentate da questa figura sono quelle su cui si scarica una parte dei rischi di impresa: operatori di call center, venditori a domicilio, addetti alle consegne, conduttori di mezzi pesanti ecc.

Nel periodo preso in considerazione, in Italia i dependent contractor sono 452.000, di cui circa la metà dichiara di lavorare per un unico cliente.

Nel 2018 calano leggermente gli infortuni sul lavoro

Rispetto all’anno precedente, nel 2018 gli infortuni sul lavoro accaduti e denunciati all’Inail sono calati dello 0,5%, per un totale di 562.952 (oltre 1.500 al giorno). In dieci anni, però, la diminuzione delle denunce è stata del 35,5%, con oltre 300.000 casi in meno.

I primi dati provvisori sulle denunce di infortunio del 2019 evidenziano una sostanziale stabilità dei casi, mentre gli infortuni mortali sarebbero in calo.

Nell’anno oggetto di analisi, le denunce per esiti mortali di infortuni sono state 1.245 (più di 3 al giorno), con un incremento di 95 casi rispetto al 2017 (ma 369 in meno rispetto a dieci anni prima). Nel 2018 in particolare è stato elevato il numero di incidenti mortali “plurimi”: un caso su tutti quello del crollo del ponte Morandi, dove le vittime sono state 15. I casi mortali accertati positivamente sono stati 744, di cui il 60% fuori dall’azienda.

Per quanto riguarda le malattie professionali, nel 2018 sono 59.503 quelle denunciate, con un aumento del 2,6% rispetto all’anno precedente. Quelle riconosciute positivamente sono circa 24.000 l’anno, con una prevalenza di quelle riguardanti il sistema osteomuscolare (67%), seguite da quelle del sistema nervoso (15%). Nel 4% dei casi si tratta di tumori.

I primi dati provvisori del 2019 indicano un ulteriore aumento delle denunce di malattia professionale.

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Francesco Bruno

Giornalista professionista, laureato in Lettere all'Università Cattolica di Milano, dove ha completato gli studi con un master in giornalismo. Appassionato di sport e tecnologia, compie i primi passi presso AdnKronos e Mediaset. Oggi collabora con Dazn e Innovation Post.

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