“Il lavoro che ci salverà”: l’evoluzione del lavoro al tempo della digital transformation al centro dell’ultimo libro di Marco Bentivogli

Nel suo nuovo libro “Il lavoro che ci salverà” Marco Bentivogli traccia le prospettive sull’evoluzione delle attività nelle fabbriche e negli uffici, per come procedono di pari passo con la digital transformation. E dice che la produttività potrà aumentare solo se in azienda ci saranno dei collaboratori appassionati e coinvolti. La trasformazione digitale? “Scongela” lo spazio e il tempo del lavoro…

Pubblicato il 26 Lug 2021

smart working

Oggi la produttività dell’azienda “è in funzione diretta dell’ingaggio cognitivo e della passione che il lavoratore immette nel processo produttivo. Se questi fattori non sono variabili chiave, benessere e produttività resteranno a un livello inferiore agli standard minimi richiesti per essere competitivi in un determinato mercato”.

E ancora: “in un mondo aperto e intercorrelato le imprese più competitive sono quelle che costruiscono la loro cultura organizzativa sulla libertà; quanto alle ricette, non ne esiste una valida per tutte le organizzazioni e le aziende, perché ogni percorso di innovazione va ‘partecipato’ e calzato secondo le peculiarità di ogni singola realtà”.

Sono alcune delle osservazioni e riflessioni contenute nel nuovo libro di Marco Bentivogli, intitolato ‘Il lavoro che ci salverà’, pubblicato da edizioni San Paolo e in libreria da oggi. Bentivogli, per molti anni segretario generale della Fim-Cisl e ora coordinatore di Base Italia, ha già realizzato diversi libri sul mondo del lavoro e dell’innovazione tecnologica, tra cui uno sullo smartworking pubblicato l’estate scorsa, e un altro focalizzato sui nuovi ‘artigiani digitali’ e i nuovi modelli di business, uscito nel 2020. Con ‘Il lavoro che ci salverà’ fa il punto della situazione e traccia le prospettive sull’evoluzione delle attività nelle fabbriche e negli uffici, per come procedono di pari passo con la digital transformation.

E rimarca: “paradossalmente sono proprio gli aspetti che le aziende non riconoscono, non valorizzano e non remunerano a fare la differenza, a creare valore aggiunto. Occorre un sistema che dia un’adeguata importanza a questi aspetti, sia in un’ottica di efficienza del mercato che di equità redistributiva”, perché “l’innovatività, sia di processo sia di prodotto, postula la centralità della ‘risorsa’ umana con tutto ciò che questo comporta”.

Secondo l’analisi e la visione di Bentivogli, non è solo l’economia a essere in crisi, ma la politica, le istituzioni e tutto il mondo associativo sono chiamate a ripensare se stesse. L’individualismo ha prodotto un’insicurezza di fondo che pervade tutto, e le persone non riescono più a percepirsi come appartenenti a una ‘società’, come parte di un tutto. L’obiettivo “è la promozione della persona, e non più la sola protezione. La persona è il fine, mai il mezzo”.

Cambiano le fabbriche, le aziende, gli uffici, e quindi il lavoro e i lavoratori. In questo scenario, la trasformazione digitale “scongela” lo spazio e il tempo del lavoro. “Lo spazio, il luogo, non è più né sempre lo stesso né ridotto a identificazione unica”, sottolinea l’autore: “un futuro di sempre maggiore lavoro da remoto, di uffici diffusi, in cui si auspicano città rigenerate in senso policentrico e verde, è un passaggio antropologico e di senso da accompagnare, in particolare per noi italiani. Lo sostengo perché nel nostro Paese l’identificazione del lavoro con il luogo è fortissima. Talvolta supera quella con l’attività stessa”.

Non avere un luogo di lavoro fisso 5 giorni alla settimana, 25 al mese, eccetera, ci spinge a concentrarci maggiormente (nel bene e nel male) sul nostro lavoro. In generale i lavoratori così ripartiscono mediamente la loro giornata: per il 60% in attività individuali, per il 6% al telefono, il 30% in attività di collaborazione (formali per il 24%, informali per il 6%), il restante è break o pausa per fumare una sigaretta. Quindi? Quindi stare rintanati tutti i giorni nello stesso posto non conta e non funziona più come in passato.

I costi riferiti agli immobili rappresentano inoltre la seconda voce di spese per le aziende, subito dopo quella del personale: 1 mq di spazio costa alle aziende mediamente 300 euro l’anno. Ridurre di 1.000 mq significa avere 300 mila euro di costi in meno all’anno, e se questa riduzione fosse convertita in spazi co-working, palestre, asili aziendali potrebbe rappresentare nuovo welfare.

Non ostacolare ma favorire l’evoluzione del lavoro

La copertina del libro

Gli attuali spazi aziendali, invece, “pregiudicano pensiero e condivisione e spesso ostacolano l’evoluzione del lavoro”, denuncia l’ex leader sindacalista. Secondo uno studio di una società di consulenza focalizzata sui valori immobiliari, il 74% del valore nelle aziende viene generato durante le attività che riguardano il pensare, il confrontarsi e il fare brainstorming, ma con le tradizionali configurazioni degli spazi i lavoratori passano meno di un quarto del tempo su queste attività: gli spazi a disposizione non le favoriscono. Secondo un altro istituto di ricerca, l’82% dei lavoratori oggi non si sente ‘engagedì (coinvolto) con l’azienda. Possono le nuove modalità di lavoro venire in aiuto? Sembrerebbe di sì. Complice il “lavoro agile”, stiamo assistendo a una trasformazione digitale del lavoro sempre più flessibile nel tempo e nello spazio, che lascia al lavoratore maggiore margine di scelta sul dove e quando lavorare. Allora gli uffici diffusi diventano un’alternativa alle proprie case, gli spazi co-working ai luoghi pubblici; si sperimenta l’Activity based working, ovvero mettono a disposizione dei lavoratori gli spazi più idonei alle diverse attività che dovranno svolgere: spazi collaborativi o individuali, zone creative o per la focalizzazione.

“Vengono meno le inefficienti e costose postazioni assegnate (economia del possesso) e aumentano le alternative e le esperienze a cui si può accedere senza limiti (economia della condivisione)”, sottolinea Bentivogli. Che osserva: “lavorare fuori dagli uffici non solo fa bene ai costi fissi, ma aumenta anche la redditività”. Ma anche: “bisogna governare le transizioni in modo serio e non ideologico. Bisogna governare seriamente il miglioramento dell’“impronta ecologica” delle produzioni e dei lavori. Da questo punto di vista, l’impronta ecologica di uno smartworker, ad esempio, è notevolmente migliore di quella di un lavoratore tradizionale, perché la mobilità inutile è un problema sotto gli aspetti ambientali, sociali, umani, economici. Ricordiamoci, tuttavia, che un terzo dell’energia consumata nel mondo è utilizzata per la climatizzazione degli immobili. E un intervento sulla sola mobilità non è sufficiente: utilizzare in modo più intelligente gli spazi dedicati al lavoro riduce anche il consumo energetico”.

Come accompagnare l’innovazione

In condizioni normali il passaggio a un modello organizzativo incentrato sul lavoro intelligente è graduale, si fa accompagnamento, si fa ‘coaching’ e formazione per indirizzare i comportamenti dei manager e dei lavoratori. La fase di emergenza sanitaria è stata una sorta di ‘stress test’ per chi aveva già adottato forme di lavoro agile, ma lo utilizzava in forma limitata. Chi era tecnologicamente preparato e aveva formato il personale ha potuto verificare che non c’è stato un calo della produttività, anzi. Chi invece è arrivato impreparato è andato in crisi perché non ha sperimentato il ‘vero’ smart working, ma una forma di lavoro da remoto coatto e vincolato, nella quale sono mancati i presupposti di volontarietà e flessibilità, alla base dello scambio tra autonomia nella scelta delle modalità di lavoro e responsabilizzazione sui risultati, su cui si dovrebbe fondare ogni accordo di smartworking.

Le nuove tecnologie “impongono un forte ripensamento del lavoro. Le persone saranno sempre più ‘ibridate’, in un rapporto virtuoso e progettuale, e non più fordista, con la macchina, ma ogni innovazione trasformatrice è all’inizio una devianza dagli schemi di partenza. Il pericolo è che la nostra percezione della realtà sia invece filtrata, anche in questo caso, attraverso le lenti con cui abbiamo letto il Novecento. Non è detto, infatti, che le 8 ore di lavoro giornaliere classiche, suddivise in 40 settimanali e in 1.760 annue, saranno ancora il modello dell’industria tecnologica dei prossimi anni”.

Lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale

Kōnosuke Matsushita, industriale giapponese e fondatore di Panasonic, diceva: “se i vostri capi pensano mentre i lavoratori maneggiano cacciaviti, perderete. Per voi la buona idea di management è fare uscire buone idee dai capi e metterle nelle mani dei lavoratori. Il mondo oggi è molto più complesso e difficile e si resiste solo se si mobilita quotidianamente ogni oncia di intelligenza. Se non si approfitta di ogni grammo di intelligenza che entra in azienda, non solo lasciate soldi sul tavolo ma mettete in pericolo la vostra azienda”. E Bentivogli a questo proposito rimarca: “le persone rispondono all’ambiente in cui si trovano, alle sue sollecitazioni, agli stimoli. Se metti dei recinti, ottieni delle pecore, e con modalità così sottili che spesso gli interessati non se ne rendono conto”.

Libertà, rispetto, autonomia e responsabilità “cambiano il lavoro e cambiano l’impresa, e mi sembra un approccio molto più efficace rispetto a spendere soldi inutili nei corsi sull’autonomia basati sulla moda dell’empowerment. Chiamare un guru del momento senza cambiare l’organizzazione è inutile e frustrante. In organizzazioni burocratiche con centralizzazione del controllo dall’alto queste cose non funzioneranno mai. A quel punto sono più coerenti i recinti. Le imprese che costruiscono la loro cultura organizzativa sulla libertà hanno maggiore successo”.

Un’organizzazione complessa funziona se ogni lavoratore mette in campo tutta la propria intelligenza emotiva e cognitiva. E l’intelligenza sul lavoro si può sviluppare solo se al lavoratore sono lasciate libertà e autonomia.

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Stefano Casini

Giornalista specializzato nei settori dell'Economia, delle imprese, delle tecnologie e dell'innovazione. Dopo il master all'IFG, l'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Milano, in oltre 20 anni di attività, nell'ambito del giornalismo e della Comunicazione, ha lavorato per Panorama Economy, Il Mondo, Italia Oggi, TgCom24, Gruppo Mediolanum, Università Iulm. Attualmente collabora con Innovation Post, Corriere Innovazione, Libero, Giornale di Brescia, La Provincia di Como, casa editrice Tecniche Nuove. Contatti: stefano.stefanocasini@gmail.com

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