POTERE E PROGRESSO

Il Nobel Acemoglu: “Progresso tecnologico e benessere sociale non sono necessariamente sinonimi. Ecco perché”



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Il progresso tecnologico, inclusa l’AI, non si traduce automaticamente in benessere sociale. L’economista e Premio Nobel Daron Acemoglu sottolinea il ruolo fondamentale delle istituzioni nel guidare l’innovazione verso benefici condivisi. La direzione che prenderà lo sviluppo dell’AI, se sarà orientata a complementare le capacità umane o a sostituirle, dice, è una scelta, non un destino inevitabile. Acemoglu invita poi l’Europa a una doppia sfida: regolamentare l’AI secondo i propri valori democratici senza rinunciare a diventare un polo di innovazione tecnologica…

Pubblicato il 12 mag 2025



Daron Acemoglu



L’economista Daron Acemoglu, vincitore del Premio Nobel per l’Economia nel 2024 e professore al Massachusetts Institute of Technology, è una delle voci più autorevoli nel dibattito contemporaneo sul rapporto tra innovazione tecnologica, potere e sviluppo sociale. Autore, insieme a Simon Johnson, del volume “Potere e Progresso” (Il Saggiatore, 2023), Acemoglu ha condiviso le sue riflessioni durante un intervento agli “Stati Generali dell’Innovazione 2025”, un evento organizzato da Il Sole 24 Ore in collaborazione con l’Unione Parmense degli Industriali, offrendo una prospettiva critica sulle sfide e le opportunità che l’attuale ondata di innovazioni, in particolare l’intelligenza artificiale, pone alla nostra società.

Convinto che le traiettorie della tecnologia non siano predeterminate, ma il risultato di scelte e rapporti di forza, con implicazioni profonde per la distribuzione della ricchezza e per il benessere collettivo, Acemoglu manda un messaggio forte: il progresso tecnologico, di per sé, non garantisce un miglioramento diffuso delle condizioni di vita; anzi, senza una guida consapevole e istituzioni adeguate, può acuire disuguaglianze e generare nuove forme di precarietà.

Il progresso tecnologico? Una storia non lineare: i rischi attuali dell’AI

La narrazione dominante tende a dipingere il progresso tecnologico come una marea che solleva tutte le barche, un motore inarrestabile di benessere universale. Ma un’analisi storica più attenta, come quella proposta da Daron Acemoglu, rivela una realtà ben più complessa e, a tratti, problematica.

L’idea che ogni nuova invenzione si traduca automaticamente in un beneficio tangibile per la maggioranza della popolazione è una semplificazione che non tiene conto delle dinamiche di potere e delle scelte distributive che accompagnano ogni trasformazione tecnologica.

Un esempio emblematico, spesso citato da Acemoglu, è quello della Rivoluzione Industriale. Sebbene nel lungo periodo abbia gettato le basi per un miglioramento senza precedenti degli standard di vita in molte parti del mondo, i suoi effetti iniziali furono tutt’altro che positivi per ampie fasce della popolazione. Per quasi un secolo, a partire dalla fine del Settecento, le condizioni di vita e di lavoro per molti operai nelle nascenti città industriali peggiorarono drasticamente. Orari di lavoro estenuanti, salari da fame, ambienti insalubri e sovraffollati divennero la norma. “Per quasi 100 anni – sottolinea Acemoglu – tante persone sono rimaste ai margini della società, lavorando tantissime ore in condizioni terribili e la loro salute è peggiorata nelle città industrializzate in quel periodo. E l’aspettativa di vita è addirittura scesa in alcuni casi”. L’introduzione di nuove macchine e nuovi processi produttivi, di per sé, non si tradusse – né si tradurrebbe oggi – immediatamente e automaticamente in un progresso sociale diffuso. Fu solo attraverso lotte sociali, la nascita di sindacati, riforme legislative e un cambiamento nell’orientamento delle istituzioni che i benefici della Rivoluzione Industriale iniziarono a essere distribuiti in modo più equo, portando a miglioramenti significativi nei tenori di vita verso la fine del XIX secolo.

Questo precedente storico offre una lente preziosa per analizzare l’attuale ondata di innovazioni legate all’intelligenza artificiale. L’entusiasmo che circonda l’AI è palpabile, alimentato da promesse di efficienza, nuove scoperte e soluzioni a problemi complessi. Acemoglu mette però in guardia dal commettere lo stesso errore del passato: identificare acriticamente il progresso tecnologico con il progresso della società.

“Oggi stiamo facendo un po’ gli stessi errori”, spiega. “Identifichiamo il progresso tecnologico promesso dall’intelligenza artificiale con un progresso per la società”. Il rischio è che, se non governata adeguatamente, l’AI possa portare a una maggiore concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di pochi, a una diffusa automazione del lavoro che non crea nuove opportunità equivalenti, e a un indebolimento delle capacità umane e dell’autonomia decisionale. La direzione che prenderà lo sviluppo dell’AI, se sarà orientata a complementare le capacità umane o a sostituirle, è una scelta, non un destino inevitabile. Comprendere la non linearità del progresso tecnologico e le sue potenziali ricadute negative è il primo passo per orientare l’innovazione verso fini genuinamente benefici per l’intera collettività, evitando che la storia si ripeta nelle sue dinamiche più problematiche.

Il ruolo delle istituzioni: oltre il mantra “Tech First” della Silicon Valley

Al centro dell’analisi di Daron Acemoglu vi è la convinzione che il progresso tecnologico non possa essere compreso, né tantomeno guidato, isolandolo dal contesto istituzionale in cui si sviluppa e opera. Le istituzioni – intese in senso ampio come l’insieme delle regole formali e informali, delle norme sociali, delle costituzioni e degli assetti di potere che strutturano una società – sono il vero arbitro del modo in cui i frutti dell’innovazione vengono distribuiti e degli effetti che essa produce sul tessuto sociale ed economico.

“Tutto quello che noi facciamo come umani avviene in un contesto sociale – spiega Acemoglu – e il contesto sociale ha necessariamente delle regole”. Queste regole non sono neutre; esse determinano chi beneficia delle nuove tecnologie, chi ne sopporta i costi, e come il potere si configura e si esercita.

L’approccio prevalente in molti ambienti innovativi, esemplificato dal mantra della Silicon Valley, tende a vedere la tecnologia come una forza autonoma e primigenia, a cui le istituzioni devono semplicemente adattarsi, preferibilmente in modo rapido e non ostativo. Questa visione, che Acemoglu critica aspramente, sottintende una sorta di determinismo tecnologico: prima viene l’innovazione, poi, inevitabilmente, la società e le sue strutture si conformeranno. “Il mantra di Silicon Valley è duplice,” osserva l’economista. “Uno è il progresso, il progresso tecnologico, l’intelligenza artificiale. Il secondo è che le istituzioni si devono adattare. Prima viene la tecnologia; poi le istituzioni, quali che siano, dovranno adattarsi”. Si tratta di due fattori che Acemoglu ritiene “sbagliati”.

Le istituzioni – sostiene invece il premio Nobel – non devono essere passive spettatrici o mere “ancelle” del cambiamento tecnologico, ma devono assumere un ruolo proattivo nel plasmarne la direzione e gli impatti. È compito delle istituzioni, infatti, creare un ambiente in cui il progresso tecnologico sia allineato con il benessere collettivo, la giustizia sociale e i valori democratici. Che cosa significa in cocnreto? Significa saper porre limiti, incentivare certi tipi di innovazione piuttosto che altri, e garantire che i benefici siano ampiamente condivisi.

Le istituzioni sono fondamentali affinché le società complesse, composte da milioni di individui, possano funzionare in modo relativamente pacifico e ordinato, e affinché coloro che detengono grandi poteri – siano essi politici, burocrati o dirigenti di grandi aziende tecnologiche – non abusino di tale potere. “Abbiamo creato delle istituzioni che dovrebbero sorvegliare sull’esercizio del potere,” dice Acemoglu.

Questa prospettiva diventa particolarmente rilevante nell’era dell’intelligenza artificiale, una tecnologia con un potenziale trasformativo immenso, ma anche con rischi significativi. Per governare l’AI in modo efficace, non basta attendere che i suoi effetti si manifestino per poi tentare di mitigarli. È necessaria una visione strategica che orienti lo sviluppo dell’AI verso applicazioni che potenzino le capacità umane, invece di limitarsi a sostituire il lavoro o a concentrare ulteriormente il controllo.

Ma “non c’è un altro percorso per poter regolamentare l’intelligenza artificiale se non una competenza forte e indipendente all’interno dei governi,” avverte Acemoglu. Senza tale competenza, il rischio è che le decisioni vengano dettate dagli interessi delle grandi corporation tecnologiche o da una comprensione superficiale delle implicazioni dell’AI, perpetuando un modello in cui la tecnologia detta l’agenda e la società arranca nel tentativo di adattarsi.

La doppia sfida dell’Europa nell’era dell’intelligenza artificiale

L’Europa si trova di fronte a un bivio complesso per quanto concerne l’intelligenza artificiale, una tecnologia percepita da molti nel Vecchio Continente come prevalentemente americana o, in misura crescente, cinese.

Questa percezione, come osserva Daron Acemoglu, riflette una realtà in cui lo sviluppo e il controllo delle piattaforme di AI più avanzate sono concentrati nelle mani di un numero ristretto di colossi tecnologici extraeuropei.

Di fronte alla percezione di una “oligarchia di big player”, l’approccio europeo è stato caratterizzato da una forte enfasi sulla regolamentazione, culminata nell’AI Act, un tentativo pionieristico di stabilire un quadro normativo per l’intelligenza artificiale basato sui rischi. L’intento è quello di proteggere i diritti fondamentali, la sicurezza e i valori democratici. Acemoglu riconosce la validità di questa spinta regolatoria: “L’intelligenza artificiale è controllata da poche, potenti società e deve essere regolamentata”, dice. Ma la sola regolamentazione, per quanto necessaria, non è sufficiente per garantire all’Europa un ruolo significativo e autonomo nell’era dell’AI.

Emerge così la “doppia sfida” per l’Europa. Da un lato, vi è l’imperativo di definire e implementare regolamenti che siano in linea con i principi etici e democratici che costituiscono un tratto distintivo dell’identità europea. Dall’altro, l’Europa deve ambire a diventare un attore di primo piano nell’innovazione tecnologica.

“Non basta dire ‘Noi in Europa la regolamenteremo’” afferma con chiarezza Acemoglu. “L’Europa deve essere un polo di un mondo multipolare e, con l’intelligenza artificiale, questo non è possibile senza essere all’avanguardia nella tecnologia”.

Questa seconda dimensione della sfida implica un cambio di passo significativo. L’Europa non può permettersi di rimanere un semplice “regolatore” di tecnologie sviluppate altrove, perché ciò la porrebbe in una posizione di dipendenza e limiterebbe la sua capacità di comprendere appieno e quindi di normare efficacemente le dinamiche dell’innovazione.

“Non si può regolamentare quello che non si capisce,” sottolinea l’economista. “Bisogna mostrare, procedere, per esempio, bisogna sapere che cosa stiamo regolamentando, che tecnologie sono”.

Per essere un polo credibile e influente, l’Europa deve “fare un upgrade” della sua posizione tecnologica, investendo in ricerca, sviluppo e nella creazione di un ecosistema fertile per l’innovazione nell’AI. Questo non significa replicare il modello della Silicon Valley, ma sviluppare un approccio europeo all’innovazione che sia competitivo a livello globale pur rimanendo fedele ai propri valori.

Paesi come la Francia, dice Acemoglu, stanno mostrando segnali di maggiore dinamismo, ma l’economista ritiene che sia necessario uno sforzo concertato a livello continentale, coinvolgendo anche Germania, Italia e altri stati membri. Solo così l’Europa potrà contribuire attivamente a definire la direzione futura dell’intelligenza artificiale, assicurando che essa sia sviluppata e utilizzata in modi che siano veramente al servizio della società.

L’Europa e l’Università: un potenziale non sfruttato per l’innovazione e l’attrazione di talenti

Nel complesso disegno strategico che l’Europa è chiamata a tracciare per navigare l’era dell’intelligenza artificiale e, più in generale, per sostenere un’innovazione che sia fonte di progresso diffuso, le università rappresentano un tassello di fondamentale importanza. Acemoglu riconosce la straordinaria tradizione accademica del continente, con l’Italia spesso definita “culla dell’istruzione superiore”, un patrimonio storico che affonda le radici nel Rinascimento e che ha visto l’Europa come faro del sapere per secoli. Ma questa eredità gloriosa – avverte – non deve mascherare le criticità che affliggono oggi molte istituzioni universitarie europee e che ne limitano il potenziale come motori di innovazione e poli di attrazione per i migliori talenti globali.

Acemoglu, pur apprezzando la profondità storica del Belpaese, non esita a delineare un quadro realista delle sfide. “Da quando io sono entrato nel mondo accademico – rileva – non è che le università italiane siano andate così bene”. E menziona problemi quali il peso della burocrazia, la scarsità delle risorse, l’eccessiva competizione tra i diversi accademici, la ridotta apertura rispetto ai giovani ricercatori.

Questi fattori, a suo avviso, “vanno contro l’eccellenza accademica”. Un’analisi che, sebbene focalizzata sull’esperienza italiana, potrebbe essere estesa a diverse altre realtà accademiche europee, dove strutture rigide, finanziamenti insufficienti e una certa resistenza al rinnovamento possono ostacolare la ricerca di frontiera e la valorizzazione dei giovani più promettenti.

Il sistema accademico statunitense, pur con i suoi difetti, è stato storicamente caratterizzato da una maggiore apertura e dinamismo. “Nel campo dell’economia negli ultimi 30 anni sono emerse tante idee che un tempo non si sarebbero potute neanche menzionare nei corridoi… e questo grazie all’arrivo dei giovani che non sono stati fermati da vincoli burocratici”, racconta Acemoglu.

Acemoglu individua però anche delle opportunità per l’Europa. In un momento in cui il contesto politico e sociale in altre parti del mondo, inclusi gli Stati Uniti, presenta incertezze che possono influire sulla libertà accademica e sull’attrattività per i ricercatori internazionali, l’Europa potrebbe proporsi come un ambiente più stabile e intellettualmente stimolante. “Sarebbe un momento ottimo per l’Europa di farsi avanti e di guadagnare una leadership in mondo accademico” dice.

Per cogliere questa opportunità, però, non è sufficiente limitarsi a offrire compensi competitivi. È necessario, soprattutto, creare un “ambiente in cui i vostri pensieri possano avere un impatto”. Ciò significa riformare le università per renderle più aperte, meno burocratiche, meglio finanziate e più capaci di attrarre e trattenere talenti, offrendo loro la libertà e le risorse per perseguire idee innovative.

“Nessun accademico,” sottolinea Acemoglu, “vuole entrare in una specie di guerra accademica o burocratica con gli altri, bloccando il lavoro di altri”. Un sistema universitario europeo rinnovato e vibrante non solo garantirebbe enormi benefici all’Europa, rafforzando la sua capacità innovativa e la sua leadership intellettuale, ma potrebbe anche diventare un polo di attrazione per studiosi da tutto il mondo, contribuendo a un ecosistema globale della conoscenza più equilibrato e dinamico.

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