L’AI? Altro che eccesso di hype, è una rivoluzione sottovalutata. A dirlo è Eric Schmidt, l’uomo che, come amministratore delegato, ha guidato Google nella sua trasformazione da motore di ricerca al colosso planetario che è diventato sotto la sua gestione nel periodo dal 2001 al 2011, e che è anche un informatico con una profonda comprensione dell’architettura del mondo digitale.
La sua opinione sull’intelligenza artificiale, espressa durante un recente intervento al TED 2025, acquista un peso specifico non solo per il suo passato, ma per il suo presente: consulente di governi, investitore e co-autore, insieme a un nome del calibro di Henry Kissinger, di saggi che definiscono i contorni strategici di questa nuova era. Per questo, la sua affermazione che l’intelligenza artificiale sia, in realtà, sottovalutata, suona come un avvertimento tanto potente quanto contro-intuitivo: in un mondo saturo di conversazioni sull’IA, Schmidt ci chiede di guardare oltre l’interfaccia di ChatGPT per comprendere l’enorme rilevanza del cambiamento in atto, le sue implicazioni fisiche e le possibili, nefaste conseguenze di una competizione geopolitica che potrebbe caratterizzare il XXI secolo.
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La vera intelligenza sta nella capacità di inventare una nuova mossa
Per molti le potenzialità dell’AI si sono “rivelate” con l’emergere degli LLM. L’esperienza quasi fisica di dialogare con un’entità come ChatGPT, capace di produrre testi di notevole complessità, è stata fondamentale per la comprensione comune sui possibili benefici dell’AI. Schmidt, però, sposta le lancette indietro, in un momento magari meno noto, ma a suo avviso ben più significativo: torna cioè al 2016 quando, durante una storica partita di Go, il sistema AlphaGo di DeepMind non si è limitato a battere il campione del mondo Lee Sedol, ma ha letteralmente inventato una mossa, la numero 37, che nessun essere umano aveva mai concepito nei 2500 anni di storia del gioco.
Quella, per Schmidt, è stata la vera rivelazione dell’AI. Non una macchina più veloce dell’uomo nel calcolo, ma un sistema capace di un’intuizione strategica inedita, quasi una scintilla creativa. La dimostrazione che l’IA poteva trascendere la conoscenza umana per produrre qualcosa di mai visto. Da qui, secondo l’ex CEO di Google, bisogna partire per analizzare l’attuale traiettoria di sviluppo dell’intelligenza artificiale. L’evoluzione dai modelli linguistici a sistemi capaci di pianificazione e strategia complessa rappresenta la prova tangibile di un progresso che non si limita alla fluidità verbale, ma tocca le fondamenta della pianificazione strategica.
La destinazione di questo percorso? Un’economia popolata da agenti software autonomi, specializzati, che collaborano per gestire interi processi industriali e aziendali. Questi agenti comunicheranno tra loro creando un ecosistema operativo la cui efficienza supererà di gran lunga i modelli organizzativi attuali. L’entusiasmo per gli assistenti di scrittura, in questa prospettiva, è solo il primo, debole segnale di una trasformazione molto più profonda.
I limiti da superare: energia, dati e conoscenza
La narrazione dell’IA è spesso confinata al mondo del software e del cloud. Schmidt la riporta bruscamente alla realtà fisica, identificando tre limiti concreti che ne condizioneranno l’espansione.
Il primo, e il più immediato, è l’energia. La fame di calcolo di questi sistemi si traduce in un fabbisogno energetico che ha dell’incredibile. Schmidt cita una stima del Congresso USA: per sostenere la crescita dell’IA, serviranno 90 gigawatt di potenza aggiuntiva, l’equivalente di 90 nuove centrali nucleari. Un’infrastruttura che, oggi, nessuno sta costruendo. I data center, sempre più estesi, consumano quanto intere città. E questa sete di elettricità non accenna a placarsi, seguendo una vecchia regola dell’informatica che Schmidt rievoca: l’hardware diventa sempre più efficiente, ma il software assorbe immediatamente quei guadagni per diventare ancora più complesso e dispendioso.
Il secondo limite sono i dati. Le risorse di internet, su cui sono stati addestrati i modelli attuali, sono di fatto esaurite. La soluzione, già in corso d’opera, è paradossale: le stesse intelligenze artificiali genereranno i dati sintetici per addestrare i sistemi di domani. Si entra in un ciclo in cui l’IA impara da se stessa, aprendo scenari inediti ma anche interrogativi profondi sulla qualità e la deriva di questa nuova conoscenza.
Il terzo vincolo – quello più filosofico – è il limite della conoscenza stessa. Come può un sistema inventare qualcosa di realmente nuovo, come fece Einstein quando unì concetti provenienti da campi della fisica apparentemente distanti? La genialità umana spesso risiede nel riconoscere schemi simili in contesti diversi. Le IA attuali, per quanto potenti, faticano a compiere questo salto. Superare questa barriera significherebbe non solo un’ulteriore, massiccia richiesta di energia, ma anche la possibilità di aprire capitoli interamente nuovi del sapere scientifico e intellettuale.
La nuova guerra fredda tecnologica: Usa, Cina e lo spettro dell’attacco preventivo
L’analisi di Schmidt assume toni più cupi sul piano geopolitico. La competizione tra Stati Uniti e Cina sull’IA non è una semplice gara economica, ma la dinamica che definirà gli equilibri di potere di questo secolo. I due Paesi seguono strategie opposte. Washington e la Silicon Valley puntano su modelli “chiusi”, proprietari e controllati. Pechino, invece, sta diventando leader dell’open-source, come dimostra il caso di DeepSeek.
Questa biforcazione è foriera di conseguenze non secondarie. L’approccio americano garantisce più sicurezza, ma quello cinese favorisce una proliferazione più rapida (e incontrollata) della tecnologia. Questa diffusione, per quanto “democratica”, mette strumenti potentissimi nelle mani di chiunque, con rischi evidenti per la sicurezza.
Ma il pericolo più grande che Schmidt delinea è quello di un attacco preventivo (o “guerra di preemption”). Il concetto è spaventoso: un Paese decide di colpire per primo non come reazione a un’aggressione, ma per neutralizzare una minaccia futura che percepisce come inevitabile e catastrofica. A differenza della deterrenza nucleare, infatti, nella corsa alla super-intelligenza chi arriva primo ottiene un vantaggio considerato definitivo. La nazione che si vedesse a un passo dall’essere surclassata potrebbe quindi considerare l’attacco come l’unica mossa razionale rimasta per evitare la propria irrilevanza o, peggio, la propria fine. Schmidt delinea una possibile escalation: dal furto di codice, all’infiltrazione, fino all’attacco fisico ai data center. Conversazioni su scenari simili, avverte con gravità, avvengono già oggi in ambienti strategici. Il rischio è che un incidente minore possa innescare un’escalation incontrollata, con una minaccia che potrebbe concretizzarsi in appena cinque anni.
Governare l’autonomia: tra distopia e libertà
Come governare questi rischi? C’è chi, come lo scienziato Yoshua Bengio, ha proposto una moratoria sullo sviluppo di IA autonome. Schmidt la ritiene una soluzione impraticabile. Proibire non funziona in un mercato globale; è necessario, invece, fissare delle “barriere di protezione” (guardrails). La sfida è evitare che le IA, per efficienza, sviluppino linguaggi propri, diventando scatole nere incontrollabili. Per questo è fondamentale poterle “scollegare”. I criteri per farlo dovrebbero essere chiari: l’auto-miglioramento fuori controllo, l’accesso alle armi o la capacità di auto-replicarsi senza permesso.
Resta il paradosso orwelliano: per evitare una distopia, rischiamo di costruire uno stato di sorveglianza perfetto. Schmidt, però, vede una via d’uscita: usare la tecnologia per preservare la libertà. Con sistemi crittografici è possibile verificare l’identità di una persona senza rivelarne i dati. La scelta tra sorveglianza e libertà, conclude, non è un problema tecnico, ma una decisione di business e di valori.
L’AI non ci renderà inutili
Nonostante i toni cupi, la visione di Schmidt si apre a un cauto ottimismo. Le promesse dell’AI sono immense: trovare le cure alle malattie, fornire a ogni medico un assistente esperto, dare a ogni studente un tutor personale, svelare i misteri della fisica. Sul futuro del lavoro, liquida l’idea di un’umanità in ozio. Il vero problema, dice, è la denatalità. L’IA non ci renderà inutili, ma aumenterà a dismisura la produttività di una forza lavoro in calo, con una crescita stimata del 30% annuo, un dato che l’economia moderna non ha mai visto.
Il suo consiglio finale è un appello all’azione. L’AI non è una moda, ma una maratona da correre ogni giorno. Il progresso è esponenziale e chi si ferma è perduto. L’esortazione è per tutti: artisti, insegnanti, medici, imprenditori. Non usare questa tecnologia significa diventare irrilevanti. Adottarla, e farlo in fretta, è l’unica via per affrontare il cambiamento più importante degli ultimi 500 anni.