La competizione globale è tornata a essere geopolitica. Per Giovanni Bozzetti, Presidente della Fondazione Ente Autonomo Fiera Internazionale di Milano — intervenuto durante il Made in Italy Summit 2025 organizzato da Il Sole 24 Ore — «il Made in Italy oggi è stritolato da una parte da una corsa al rialzo dei dazi e dall’altra dalle politiche di dumping praticate dal governo cinese e da altri Paesi dell’Est».
Le differenze nei costi di produzione, nella disciplina ambientale e nel rispetto delle regole sul lavoro generano uno squilibrio che le imprese italiane faticano a compensare.
Bozzetti cita un caso emblematico: «in Cina si produce una scarpa a un costo dieci volte inferiore rispetto all’Italia», grazie a orari di lavoro più lunghi, norme ambientali meno stringenti e incentivi pubblici che sostengono l’industria locale. In queste condizioni, la competizione basata sul prezzo diventa insostenibile.
Ma la risposta, sottolinea, non può essere il protezionismo. «La forza del Made in Italy resta il brand più amato al mondo», osserva Bozzetti, a patto che il sistema produttivo non si culli sulla reputazione ma investa su innovazione, sostenibilità e mercati nuovi.
Indice degli argomenti
Il peso della burocrazia europea e il dibattito sul Green Deal
Nel dibattito, Bozzetti ha criticato l’impatto delle politiche europee sulla competitività industriale. «Alcune norme, come quelle legate al Green Deal, hanno appesantito i costi burocratici e produttivi delle aziende», ha affermato, evidenziando come l’eccesso di regolazione rischi di frenare l’innovazione.
Il riferimento è soprattutto alla «corsa all’elettrico», giudicata troppo rapida e non sostenuta da un’adeguata infrastruttura tecnologica. «L’auto elettrica vive sulle batterie, ma non esiste ancora un sistema di recupero efficiente», spiega. «Per estrarre le materie prime servono processi ad alto impatto ambientale. Non è vero che l’elettrico sia sempre sinonimo di sostenibilità.»
La sua posizione non è negazionista ma pragmatica: la transizione ecologica deve essere graduale e tecnologicamente fondata.
L’esempio degli Emirati Arabi Uniti, citato nel panel, è significativo: «uno dei maggiori esportatori di petrolio è anche tra i paesi più avanzati nella produzione di energia solare e nucleare». La lezione è che diversificare le fonti e bilanciare innovazione e realismo resta la via più efficace per garantire una transizione sostenibile senza sacrificare la competitività.
Guardare oltre i mercati tradizionali
Nel confronto moderato è emerso un consenso sulla necessità di ampliare l’orizzonte geografico delle esportazioni italiane. Bozzetti sottolinea che la crisi globale può essere una leva per il cambiamento: «Non dobbiamo più guardare solo ai mercati tradizionali ma aprirci ai nuovi mercati in via di sviluppo».
In questa prospettiva, Medio Oriente e Africa rappresentano due aree chiave. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi stanno diventando poli di investimento e consumo ad alto valore aggiunto. L’Africa, spiega Bozzetti, «rientra pienamente nel Piano Mattei, ma è stata abbandonata per troppo tempo all’influenza di Cina e Russia».
Le opportunità, tuttavia, richiedono una strategia: non basta esportare, serve presenza stabile nei territori e capacità di costruire partnership. «Senza una politica estera economica coerente, rischiamo di assistere da spettatori alla redistribuzione del potere economico globale», avverte Bozzetti.
La visione delle Camere di Commercio italiane all’estero
Mario Pozza, Presidente di Assocamerestero, condivide la necessità di espandere la proiezione internazionale delle imprese ma invita alla cautela: «Non bisogna abbandonare i mercati che conosciamo, come Europa e Stati Uniti, altrimenti li occuperanno altri.»
L’obiettivo, spiega, è duplice: consolidare la presenza nei mercati maturi e accompagnare le imprese nei nuovi contesti economici.
Il modello italiano, fondato sulla piccola e media impresa, ha un vantaggio distintivo: la personalizzazione. «Abbiamo una capacità unica di adattare il prodotto alla domanda locale», ricorda Pozza. Tuttavia, questo vantaggio non basta se le imprese non vengono sostenute da reti bancarie, consolari e istituzionali capaci di ridurre i rischi operativi.
Pozza cita numeri concreti: delle circa 120.000 aziende italiane esportatrici, solo 11.000 operano in modo continuativo, mentre le altre si affacciano sui mercati esteri in maniera episodica.
La sfida è trasformare queste esperienze in relazioni durature, «evitando l’approccio dell’improvvisazione e della vendita una tantum».
Le fiere come piattaforme di diplomazia economica
Un altro passaggio centrale del dibattito riguarda il ruolo delle fiere internazionali. Bozzetti le definisce «vetrine del Made in Italy e strumenti di diplomazia economica». Parteciparvi permette alle piccole e medie imprese di «raggiungere in pochi giorni interlocutori di tutto il mondo» e costruire reti di distribuzione che altrimenti sarebbero inaccessibili.
Tuttavia, aggiunge, il sistema deve evolvere: «Non basta aiutare le PMI a partecipare alle fiere all’estero, bisogna anche incentivare l’arrivo dei buyer internazionali in Italia».
Questa logica di «incoming” consente di generare valore diretto sul territorio nazionale. Il sistema fieristico milanese, per esempio, produce ogni anno circa 40 miliardi di euro di ricavi per le aziende partecipanti e 17 miliardi di esportazioni.
Bozzetti invita inoltre a superare la competizione interna tra i quartieri fieristici italiani: «Il sistema tedesco vale quattro miliardi, quello italiano appena un miliardo e mezzo. Serve una regia comune se vogliamo essere competitivi».
Dazi, barriere e creatività imprenditoriale
Nel confronto, Mario Pozza ha affrontato anche il tema del neoprotezionismo americano. I dazi introdotti dagli Stati Uniti, spiega, «possono anche aprire opportunità indirette». Alcuni paesi, impossibilitati a importare prodotti americani, possono rivolgersi al mercato europeo e italiano per sostituirli.
La flessibilità diventa così un’arma strategica. «Gli imprenditori italiani sanno superare gli ostacoli», osserva Pozza. «Le aziende più strutturate riescono a eludere i dazi esportando prodotti semilavorati, poi assemblati localmente nei paesi di destinazione.»
Una pratica che richiede competenze logistiche, reti di partner e presenza stabile nei mercati di riferimento, ma che consente di mantenere l’export anche in condizioni di alta incertezza.
Le nuove rotte dell’export italiano
L’espansione verso nuove aree economiche è una delle chiavi del futuro. Pozza indica come prioritarie l’Asia – con un focus sull’India e sui paesi dell’ASEAN – e l’America Latina, «mercati che insieme rappresentano oltre due miliardi di consumatori».
L’Africa, con oltre 800 milioni di abitanti, completa il quadro delle aree da presidiare in modo sistemico, anche attraverso il Piano Mattei.
Per riuscirci, serve però una politica di accompagnamento. «Bisogna andare nei mercati con cognizione di causa, non all’avventura», ribadisce Pozza.
Il network delle Camere di Commercio italiane all’estero, insieme a ambasciate e agenzie come ICE e SACE, può agire da moltiplicatore di fiducia e competenza, rendendo più solido l’approccio all’internazionalizzazione.
Il punto centrale, secondo Pozza, è che «gli imprenditori italiani sono eroi che continuano a competere nonostante i costi, la burocrazia e l’assenza di un sistema bancario forte all’estero».
La tenuta del Made in Italy, pur tra contraddizioni, deriva da questa combinazione di resilienza e capacità di adattamento.
Verso un nuovo equilibrio tra regole e competitività
Il confronto tra Bozzetti e Pozza evidenzia un tema trasversale: la necessità di un equilibrio tra sostenibilità, tutela e produttività. Le imprese italiane non chiedono meno regole, ma regole più intelligenti, capaci di premiare chi innova e investe.
Nel mondo dei dazi e del dumping, il vero capitale competitivo resta la capacità di trasformare la complessità in valore, non di eluderla. L’Italia, posizionata tra la rigidità europea e la spregiudicatezza asiatica, ha un’occasione per ridefinire il proprio modello di crescita.
Le strategie export Made in Italy dovranno basarsi meno sull’emozione del marchio e più sulla costruzione di alleanze, piattaforme e infrastrutture produttive. In questo modo, la crisi può diventare una leva di rinascita industriale e culturale.











