Le imprese dell’ICT contro la direttiva per il copyright

L’approvazione della direttiva contro il copyright non piace al mondo Ict. Una normativa vaga che rischia di produrre una “babele” di normative.

Pubblicato il 27 Mar 2019

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Il Parlamento europeo ha approvato in settimana la direttiva sul Copyright con le nuove regole sul diritto d’autore. L’aula di Strasburgo ha dato il via libera con 348 sì, 274 no e 36 astenuti.

L’approvazione è arrivata dopo una lunga battaglia che ha visto fronteggiarsi schieramenti contrapposti e non omogenei.

Per esempio, di fronte agli editori compatti, tutt’altro che positiva è stata la reazione di Marco Gay, presidente di Anitec-Assinform, l’Associazione di Confindustria che rappresenta le aziende dell’Ict.

“Le nuove tecnologie – è il commento – sono da sempre state al fianco dello sviluppo della cultura e della creatività. L’innovazione digitale ha permesso ai cittadini che ne hanno beneficiato una crescita culturale e lo sviluppo di nuovi modelli di business. Creatività e cultura sono valori che dobbiamo difendere sia a livello nazionale che europeo. Accogliamo con favore l’esenzione del “text and data mining”, che garantirà, come abbiamo più volte richiesto, le opportunità di crescita per la ricerca e lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale in Europa. Tuttavia, riteniamo, ancora una volta, che la direttiva nel suo complesso andrà a danneggiare il mercato digitale italiano e europeo. Riteniamo infatti che sarà molto difficile rispettare l’incerto e oneroso quadro di obblighi e responsabilità affidati alle piattaforme digitali”.

Gli accordi con i singoli Stati

Il pessimismo è dovuto anche al fatto che l’intesa definisce un quadro generale che dovrà poi essere definito con accordi dei singoli Stati con le piattaforme online. Una soluzione che potrebbe creare differenti legislazioni in ogni Paese membro e che non pare coerente con l’obiettivo di costituire il Digital Single Market, il mercato unico digitale.

Sotto accusa ci sono gli articoli 15 e 17, il cuore del provvedimento, che introducono una tassa sui link e un un filtro sul caricamento dei contenuti. L’articolo 15 (ex articolo 11) stabilisce che “gli autori delle opere incluse in una pubblicazione di carattere giornalistico ricevano una quota adeguata dei proventi percepiti dagli editori per l’utilizzo delle loro pubblicazioni di carattere giornalistico da parte dei prestatori di servizi della società dell’informazione”. In sostanza significa che gli autori di un articolo veicolato da piattaforme come Google News devono essere remunerati dai propri editori, a propria volta pagato per i contenuti concessi agli aggregatori digitali. E qui intervengono gli accordi locali fra editori e piattaforme.

L’articolo 17 (ex articolo 13) stabilisce invee che “un prestatore di servizi di condivisione di contenuti online (le piattaforme online, ndr) deve pertanto ottenere un’autorizzazione dai titolari dei diritti”, attraverso una licenza. In questo modo se un contenuto protetto da copyright viene caricato senza licenza, la responsabilità è delle piattaforme a meno che non dimostrino di “aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione” o “aver agito tempestivamente” per disabilitare l’accesso agli utenti che caricano questo tipo di contenuti.

Una normativa troppo vaga

La direttiva, però – è l’opinione dei critici – lascia aperti parecchi punti, è in certi casi vaga e apre la strada a differenti interpretazioni e una grande possibilità di contenzioso. In più non c’è una netta distinzione fra le big e le startup che, per quanto riguarda il controllo preventivo dei contenuti, sono esentate se hanno un fatturato inferiore ai dieci milioni di euro, meno di cinque milioni di utenti mensili e se sono operative da meno di tre anni.
Eccezioni sono previste per Wikipedia e le piattaforme di software open source come GitHub, i servizi cloud e l’ecommerce.

Senza dimenticare il text e data mining, l’insegnamento online anche fra Paese e Paese e tutto quello che riguarda la conservazione e la diffusione online del patrimonio culturale.

In pratica oltre a stabilire il diritto di chi crea contenuti e degli editori a ottenere la tutela del copyright per tutto ciò che viene caricato sul web c’è l’obbligo per le grandi piattaforme di rispettare quel diritto e remunerare gli autori. Da qui in poi si apre la libera interpretazione dei governi.

Ma in fondo per evitare tutto questo sarebbe bastato che gli editori compatti vietassero a Google e Facebook di indicizzare o linkare i propri contenuti. Ma nessuno ha voluto o avuto il coraggio di farlo.

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Luigi Ferro

Giornalista, 54 anni. Da tempo segue le vicende dell’Ict e dell’innovazione nel mondo delle imprese. Ha collaborato con le principali riviste del settore tecnologico con quotidiani e periodici

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