L’impatto della crisi sulle imprese italiane: quasi il 40% rischia di chiudere

Quasi il 40% delle imprese italiane (che occupano circa 3,6 milioni di addetti) rischia la chiusura a causa della crisi connessa all’emergenza da Covid-19. È il drammatico risultato del blocco delle produzioni resosi necessario per contrastare il contagio, una sospensione che ha coinvolto quasi metà del tessuto produttivo italiano. Lo rileva l’Istat nella Nota Mensile dei mesi di maggio e giugno 2020.

Pubblicato il 07 Lug 2020

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Quasi il 40% delle imprese italiane (che occupano circa 3,6 milioni di addetti) rischia la chiusura a causa della crisi connessa all’emergenza da Covid-19. È il drammatico risultato del blocco delle produzioni resosi necessario per contrastare il contagio, una sospensione che ha coinvolto quasi metà del tessuto produttivo italiano.

Delle aziende a rischio chiusura la maggior parte sono micro imprese (40,6%) e piccole imprese (33,5%), ma la nota mensile di maggio e giugno 2020 dell’Istat non risparmia nemmeno le medie e le grandi.

Tra i fattori determinanti il rischio chiusura per le imprese vi è innanzitutto la caduta di fatturato (oltre il 50% in meno rispetto allo stesso periodo del 2019), che ha colpito il 74% delle imprese. Segue il lockdown, identificato come concausa dal 59,7% degli intervistati.

I dati sulla crisi dell’economia italiana

Calo consistente, ma pur sempre inferiore a quello di marzo, per la produzione industriale delle imprese italiane nel mese di aprile. Il calo del 19,1% è infatti meno ripido di quello del mese precedente (-28,4%). Tra febbraio e aprile, il livello medio di produzione è calato del 23,2% rispetto ai tre mesi precedenti coinvolgendo quasi tutti i settori produttivi, seppure con intensità eterogenee.

A crescere vertiginosamente a maggio sono gli scambi coi mercati extra UE: le esportazioni crescono del 37,6% rispetto al mese precedente (ad aprile erano diminuite di oltre il 37,3%, mentre quelle verso l’UE erano scese del 32,7%). Ad ogni modo l’inversione di tendenza non permette sicuramente di tornare ai livelli pre crisi: i valori registrati a maggio restano inferiori di circa 4 miliardi rispetto a febbraio.

All’incremento dell’export contribuiscono prevalentemente le vendite di beni strumentali (+60% a maggio), di beni intermedi (+27,1%) e di consumo non durevoli (+24,9%). Anche sul fronte delle importazioni dai mercati extra Ue la caduta si fa meno ripida (dal -12,5% di aprile al -2,4% di maggio). Se non si considerassero le riduzioni di acquisti di beni energetici (-16,9%), le importazioni sono cresciute dello 0,3% (con l’aumento dell’acquisto di beni strumentali del 13,6%).

Le imprese e la crisi

“La risposta all’impatto della crisi sembra delineare un quadro caratterizzato da una resilienza del sistema industriale in presenza sia di forti criticità tra alcuni segmenti di imprese sia di vincoli dal lato della domanda e dell’offerta”, rileva l’Istat introducendo il focus sulle difficoltà e sulle strategie di reazione del sistema produttivo italiano, frutto di un’indagine svolta a maggio su 90.000 imprese con almeno 3 addetti.

Durante il lockdown ha operato solo il 32,5% delle imprese, mentre il 43,8% ha dovuto sospendere l’attività fino al 4 maggio (compreso il 49,1% delle imprese più produttive).

Il 38,8% delle imprese italiane (pari al 28,8% dell’occupazione, circa 3,6 milioni di addetti, e al 22,5% del valore aggiunto, circa 165 miliardi di euro) è alle prese con problemi economici e organizzativi che ne mettono a rischio la sopravvivenza. Si tratta soprattutto di micro imprese (40,6% per 1,4 milioni di addetti) e piccole imprese (33,5% per 1,1 milioni di occupati). Anche nelle medie e grandi le percentuali sono comunque a doppia cifra: rispettivamente 22,4% e 18,8%. Sono più a rischio le unità produttive a basso dinamismo: più di una su tre rischia la chiusura, mentre la quota si riduce a circa un quinto per quelle più dinamiche.

Ovviamente a subire maggiormente il colpo della crisi sono state le imprese più coinvolte nei provvedimenti di chiusura: il 65,2% delle imprese dell’alloggio e ristorazione e il 61,5% di quelle nel comparto dello sport, cultura e intrattenimento. Nella manifattura è pari ad un terzo la quota di imprese che soffrono di criticità operativa (4 miliardi di euro di valore aggiunto e 760.000 addetti), percentuale simile alle costruzioni e al commercio.

Ma quali fattori determinano il rischio chiusura per le imprese? Innanzitutto la caduta di fatturato (oltre il 50% in meno rispetto allo stesso periodo del 2019), che ha colpito il 74% delle imprese; poi dal lockdown, identificato come concausa dal 59,7% degli intervistati.

Ad incidere sul deterioramento delle condizioni di operatività sono stati i vincoli di liquidità (per il 62,6% delle unità a rischio chiusura) e la contrazione della domanda (54,4%). Meno incisivi i vincoli di approvvigionamento dal lato dell’offerta (23%).

Sul fronte della performance, il rischio operativo coinvolge il 63,2% del segmento di imprese caratterizzato da una elevata fragilità (livelli limitati di produttività e alta frammentazione). Sono principalmente le micro e piccole imprese che operano nell’alloggio e ristorazione, ma anche in settori colpiti dalla crisi sanitaria in maniera meno diretta, come la manifattura e il commercio. Ma l’incertezza per l’operatività futura non risparmia nemmeno le imprese produttive e con alta rilevanza sistemica (11,1%) caratterizzate da un numero di addetti superiore a 10 che operano in settori direttamente colpiti dalla crisi, quali i servizi connessi al turismo, l’alloggio e ristorazione e attività dello sport, cultura e intrattenimento.

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Come stanno reagendo le imprese alla crisi? Più di un terzo non ha scelto nessuna strategia (il 38,1% sono micro imprese, che hanno pochi margini di movimento). Chi invece ha deciso di muoversi, lo ha fatto in modi diversi. C’è chi prevede di contrarre l’attività, l’occupazione e/o gli investimenti (31,1%), chi vuole far crescere i prodotti, i mercati e le relazioni (27,1%), e chi sta riorganizzando e adattando la propria attività (41,8%).

Chi adotta un comportamento di tipo espansivo sono principalmente le imprese dell’industria (30,5%), del commercio (31,9%) e quelle con meno di 50 addetti. Nel comparto industriale e nel commercio, infatti, si registra una maggiore tendenza verso strategie di espansione (rispettivamente 30,5% e 31,9%), reazione che prevale anche nel segmento delle piccole imprese (28,8%). Chi è più propenso alla riorganizzazione appartiene spesso al settore delle costruzioni (43,8%), dei servizi di mercato (42,9%), dei servizi alla persona (55,2%) e alle imprese con 50 e più addetti.

Come sta la manifattura?

L’Istat fornisce poi un’analisi sullo stato dei vari settori della manifattura alla luce della crisi e del riavvio delle attività dopo il lockdown, sottolineando che “i settori manifatturieri mostrano una decisa resilienza che potrebbe suggerire una ripresa dei ritmi produttivi in presenza di una riorganizzazione dei processi”. Ad ogni modo “la mancanza di una risposta adeguata alla crisi e l’esistenza di vincoli dal lato sia della domanda sia dell’offerta costituiscono un elevato fattore di rischio per la ripartenza”.

I settori caratterizzati da andamenti in miglioramento o in calo più contenuto, come il settore alimentare, bevande e tabacchi e la chimica e farmaceutica, evidenziano anche livelli contenuti di imprese a rischio (28,9% e 20,1% rispettivamente) e una significativa propensione all’espansione dell’attività (16,2% e 15,7%), pari a circa due volte la media della manifattura. L’industria chimica e farmaceutica mostra anche forti vincoli dal lato dell’offerta (46,9%, circa 15 punti in più della media della manifattura). Meno favorevoli appaiono le prospettive dichiarate dalle imprese del legno, carta e stampa.

Il tessile, abbigliamento e pelli appare caratterizzato da una forte polarizzazione, con un livello elevato di imprese a rischio (48,2%) accompagnato da una quota significativa di imprese che dichiara di avere avviato strategie di riorganizzazione e cambiamento (38,4%). Le criticità più marcate si manifestano nei minerali non metalliferi e metallurgia e prodotti in metallo, entrambi contraddistinti da quote elevate di imprese che dichiarano di contrarre la propria attività (37,1% e 41,1%) e nel caso della metallurgia anche un valore elevato per i vincoli dal lato dell’offerta (39%). Infine, la presenza di forti vincoli dal lato della domanda caratterizza altri 3 settori: mezzi di trasporto (69,9%), mobili (66,6%) e altre manifatture (66,8%).

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La situazione internazionale

Nei mesi di maggio e giugno l’area euro ha visto crollare del 13% le esportazioni e dell’11% le importazioni. Le vendite al dettaglio di maggio sono cresciute del 17,8% (ad aprile erano calate dell’11,7%), sull’onda delle riaperture degli esercizi commerciali.

E infatti a giugno torna a salire (dopo il crollo dei mesi precedenti) l’Economic Sentiment Indicator, in tutte le sue componenti. Il commercio al dettaglio ha riguadagnato circa un terzo delle perdite di marzo e aprile. L’indice a maggio in Italia è salito di 8,2 punti.

Non si è invertito nemmeno il commercio mondiale di merci in volume, che tra febbraio e aprile era già sceso del 7,2% rispetto ai tre mesi precedenti. Migliorano però le prospettive per i prossimi mesi, dato che gli indici PMI Global sui nuovi ordinativi all’export sono risaliti.

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Francesco Bruno

Giornalista professionista, laureato in Lettere all'Università Cattolica di Milano, dove ha completato gli studi con un master in giornalismo. Appassionato di sport e tecnologia, compie i primi passi presso AdnKronos e Mediaset. Oggi collabora con Dazn e Innovation Post.

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