Incentivi per l’industria 4.0, servono realismo e continuità

I dati della ricerca di Ucimu – Sistemi per Produrre sullo stato di salute del parco macchine utensili installate in Italia hanno suscitato reazioni di ogni tipo. La sensazione prevalente che emerge è una certa delusione: gli incentivi per Industria 4.0 non avrebbero funzionato come ci si sarebbe aspettato. In questo articolo vi proponiamo un’attenta riflessione sui numeri emersi e un’analisi su quello che serve al sistema manifatturiero italiano.

Pubblicato il 02 Lug 2021

trasformazione digitale

I dati della ricerca di Ucimu – Sistemi per Produrre sullo stato di salute del parco macchine utensili installate in Italia hanno destato – proprio come accadde nel 2015 – reazioni di ogni tipo.

Basti guardare, per esempio, alcuni titoli della stampa che ha dato la notizia. Ansa.it: “Ucimu, macchinari vecchi ma cresce automazione”; il Corriere della Sera: “Le macchine e l’Industria 4.0: ha funzionato solo per i grandi”; il Sole24Ore: “Invecchia il parco macchine dell’industria – Le imprese: gli incentivi diventino strutturali”; la Prealpina: “Macchine vecchie”; Libero e Il Tempo: “Industria: parco macchine utensili, cresce l’età media ma aumenta automazione”; il Corriere delle Comunicazioni: “Industria 4.0, macchinari all’avanguardia solo nelle grandi imprese. In affanno le piccole”; Innovation Post: “Il parco macchine utensili installate in Italia è più automatizzato, ma la metà delle macchine ha oltre vent’anni”; Il giornale delle PMI: “Il parco macchine utensili e sistemi di produzione dell’industria italiana è più vecchio di quello di cinque anni fa”; Industria Italiana: “Ucimu: parco macchine utensili in Italia sempre più digitalizzato e automatizzato. Ma anche più vecchio”.

Da una lettura di questi titoli – e più ancora dal contenuto degli articoli – la sensazione prevalente che emerge è una certa delusione. Il messaggio che certi titoli sottendono è sostanzialmente che gli incentivi per Industria 4.0 non hanno funzionato come ci si sarebbe aspettato: le macchine sono invecchiate e ad approfittarne sono state prevalentemente le grandi imprese.

Un breve riassunto dei fatti principali gioverà a supportare un doveroso commento.

Dall’indagine, che fa una fotografia dell’installato al dicembre 2019, quindi prima dell’abbattersi della pandemia, emergono sostanzialmente cinque elementi. Alcuni riguardano l’aspetto anagrafico del parco macchine, altri l’aspetto quantitativo e uno, infine, l’aspetto qualitativo. Eccoli:

  1. L’età media delle macchine installate è cresciuta da 12 anni e 8 mesi a 14 anni e cinque mesi
  2. Quasi la metà delle macchine ha oltre vent’anni di vita alle spalle
  3. Nonostante in Italia ci siano meno fabbriche rispetto al 2014, il numero delle macchine installate risulta in forte aumento
  4. Il livello medio di integrazione e automazione delle macchine installate è cresciuto
  5. Una macchina su quattro è installata in uno stabilimento di una grande impresa (nel 2014 era una su cinque).

Questi sono i numeri. Poi c’è l’interpretazione. E qui entrano in gioco le aspettative. Perché di questo si tratta, almeno soffermandosi ai primi due punti dell’elenco di sopra: per il piano Industria 4.0, poi Impresa 4.0, sono state investite, a  partire dal 2017, diverse decine di miliardi e altri 24 sono attualmente stanziati per l’edizione 2020-2022 del piano Transizione 4.0. Un investimento di risorse pubbliche importante da cui ci si aspetta ritorni importanti proprio in termini di ammodernamento dei sistemi produttivi. Com’è possibile che dal 2014 al 2019 il parco macchine sia invece invecchiato?

La risposta a questa domanda merita un po’ di spazio. Innanzitutto pensare che con qualche decina di miliardi si possa svecchiare completamente il parco macchine in uso nel sistema manifatturiero italiano significa non avere idea di quanto grande e importante sia la seconda economia manifatturiera in Europa. E poi significa anche non comprendere che qui non siamo in Cina: e come non si costruisce una nuova Shanghai in due anni, così non si “rifonda” un sistema produttivo in tre anni (dal 2017, anno di inizio degli incentivi, al 2019, anno a cui fa riferimento l’indagine.

Quello che invece era lecito aspettarsi è che si iniziassero a vedere gli effetti del piano. E qui occorre valutare i dati riportati al punto 3 e 4 dell’elenco precedente. Gli incentivi hanno favorito l’iniezione di nuovi macchinari nelle fabbriche. Nuove macchine che hanno aumentato il livello medio di automazione della manifattura italiana e quindi la sua competitività sullo scenario internazionale, che poi è dove i prodotti a valore aggiunto delle nostre fabbriche prevalentemente si vendono.

Su questo punto c’è un numero che può bastare ed è il valore della produttività. Come è noto l’Italia su questo fronte è sostanzialmente al palo da 25 anni. Ma, se si leggono i dati Istat, i risultati relativi al periodo 2014-2019 indicano una crescita media della produttività del capitale, con un cambio di tendenza rispetto ai periodi precedenti. Nulla di clamoroso, sia ben chiaro, ma a fronte di un dato che fa segnare -0,7% nel periodo 1995-2019, il +0,8% del periodo 2014-2019 è una buona notizia.

Tornando alla nostra indagine sul parco macchine, il dato è suffragato dall’aumento del livello di integrazione e automazione: le macchine a controllo numerico – che si possono considerare quelle più avanzate – rappresentano il 54% del parco installato. Nel 2014, anno della precedente rilevazione, la quota di macchine a controllo numerico era risultata pari a solo il 32% del totale. E il grado di automazione/integrazione degli impianti produttivi cresce comunque sia a livello di macchina singola, sia s livello di linea, sia a livello di fabbrica. Questo è un effetto tangibile dell’introduzione di nuove tecnologie digitali in azienda.

L’ultimo punto da commentare, infine, è quello relativo all’aumento degli investimenti nelle grandi imprese più che nelle medie e piccole. Qui la “polemica” che si cela dietro i titoli che sottolineano questo numero è evidente: Industria 4.0 non aiuta le PMI, ma è un favore fatto alle grandi aziende. Sull’argomento si è molto discusso, in occasione dei vari report del Ministero dello Sviluppo Economico, del Centro Studi Confindustria, dell’Istat e del MET.

Diciamolo subito: i numeri sono incontestabili. Se in termini di numerosità sono le PMI ad essere risultate le maggiori beneficiarie degli incentivi (ma questa è un’ovvietà), in termini di valore sono le grandi imprese ad aver sfruttato la maggior parte delle risorse  messe a disposizione dagli incentivi. Ma qual è la sorpresa? Gli incentivi sono pensati per supportare gli investimenti, non per “costringere” le imprese a investire. È abbastanza chiaro che le aziende più strutturate, che hanno già un piano di sviluppo degli investimenti, siano quelle più pronte a cogliere l’opportunità. Questo non vuol dire che le misure non siano indispensabili alle medie e piccole imprese. Anzi, sono proprio queste le imprese che, in assenza di incentivi, probabilmente non avrebbero effettuato investimenti in conto capitale.

Ancora un paio di elementi di riflessione, prima di concludere. Primo: l’analisi di Ucimu fotografa il parco macchine italiane al 31/12/2019. Ricordiamo che il piano Industria 4.0 è partito nel 2017, quando la maggior parte delle aziende non sapeva nemmeno che cosa fosse l’Industria 4.0. Il piano, che aveva tantissimi pregi – su tutti quello di essere uno strumento automatico, non soggetto a valutazione – aveva anche il difetto di essere un po’ ostico da comprendere per l’imprenditore medio. In primis perché il meccanismo della maggiorazione degli ammortamenti non è intuitivo; poi per via delle interpretazioni degli elenchi di beni strumentali contenuti negli allegati A e B; infine per l’arrivo continuo e mai completo delle varie FAQ e circolari. Il secondo punto è che il piano non nasce con respiro di lungo periodo ed è soggetto a rinnovi annuali con la relativa scorta di incertezze.

Non stupisce che il 2017 sia stato un anno di “attesa” per le PMI, che abbiano poi deciso di muoversi con il primo rinnovo nel 2018.  Ma già nel 2019 si verifica lo stop (per fortuna momentaneo) al superammortamento ad opera del primo Governo Conte. E in quello stesso anno arrivano altre norme (come quella sul recapture) che non vanno nella direzione dell’ampliamento della platea di beneficiari. La “rivoluzione” dei crediti d’imposta arriverà solo nel 2020 e non è quindi registrata in questi numeri.

In conclusione – mi si lasci richiamare il titolo di questa riflessione – servono realismo e continuità. Il realismo nel giudicare uno strumento di supporto agli investimenti delle imprese che è certamente necessario, ma non è la “panacea” di tutti i mali del sistema manifatturiero italiano e che non ha potuto – ed era sbagliato aspettarselo in soli tre anni e con qualche decina di miliardi – rivoluzionare l’ossatura della manifattura italiana.

Sempre in tema di realismo, mi preme sottolineare l’importanza delle misure a supporto del revamping dei macchinari: le aziende hanno dimostrato che le macchine vecchie raramente si buttano via. Si acquista una nuova macchina per una nuova linea, ma la vecchia si sistema e si porta avanti. Esattamente come per le autovetture, di questi dati va tenuto conto, magari pensando a misure più incisive per chi decide di trasformare, in chiave 4.0 e sostenibile, i vecchi macchinari.

Infine occorre continuità. Perché le imprese, tra incentivi e pandemia, hanno ormai capito che la digitalizzazione non è né un “vezzo” né un “vizio”, ma una necessità. E vanno aiutate lavorando su incentivi che siano chiari, duraturi ed efficaci.

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Franco Canna
Franco Canna

Fondatore e direttore responsabile di Innovation Post. Grande appassionato di tecnologia, laureato in Economia, collabora dal 2001 con diverse testate B2B nel settore industriale scrivendo di automazione, elettronica, strumentazione, meccanica, ma anche economia e food & beverage, oltre che con organizzatori di eventi, fiere e aziende.

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