L’ANALISI DEGLI ECONOMISTI

L’AI e la grande inversione storica: penalizzati i colletti bianchi e le donne e non i lavori manuali



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Negli ultimi 200 anni di innovazione la tecnologia ha sempre favorito i lavoratori più istruiti e le donne. Uno studio di alcuni economisti americani indica che stavolta potremmo essere di fronte a un’inversione di rotta: l’automazione cognitiva favorirà occupazioni a bassa qualifica, bassi salari e dominate da uomini, penalizzando manager, professionisti e tecnici…

Pubblicato il 20 ott 2025



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Per quasi duecento anni l’innovazione tecnologica ha seguito un copione prevedibile: ha sostituito il lavoro manuale, ha aumentato la domanda di competenze cognitive e ha costantemente premiato i lavoratori con un’istruzione superiore. Una dinamica, questa, che ha alimentato la crescita economica, sostenuto l’aumento del “premio” salariale per la laurea e favorito l’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro. Ora però l’avvento dell’intelligenza artificiale minaccia di invertire radicalmente questa consolidata tendenza.

Ad approfondire l’argomento è un nuovo working paper pubblicato dal National Bureau of Economic Research (NBER) e firmato da Huben Liu, Dimitris Papanikolaou, Lawrence D.W. Schmidt e Bryan Seegmiller, economisti in forze alla Northwestern University, una delle università private più famose e prestigiose degli Stati Uniti, con sede a Evanston nell’Illinois, e all’MIT. Un’analisi che guarda al futuro dopo aver ricostruito il passato con un metodo particolarmente innovativo.

La conclusione è piuttosto forte: l’IA, automatizzando per la prima volta su larga scala le mansioni cognitive, sposterà la domanda di lavoro verso occupazioni a minor qualifica, con salari più bassi e storicamente dominate dalla componente maschile. I colletti bianchi, per decenni al riparo dall’automazione, sono ora in prima linea nella trincea del rischio occupazionale.

Un viaggio nel tempo con l’intelligenza artificiale

Liu, Papanikolaou, Schmidt e Seegmiller hanno utilizzato per la prima volta gli LLM – la stessa tecnologia che sta ridisegnando il mercato del lavoro – per analizzare la storia economica, costruendo un dataset che copre quasi due secoli, dal 1850 a oggi.

Il processo è stato articolato in due passaggi. Dapprima è stata fatta un’analisi testuale di milioni di brevetti depositati negli Stati Uniti, utilizzandoli come “proxy” dell’innovazione tecnologica. Queste innovazioni sono poi state “incrociate” con l’evoluzione del mondo del lavoro: gli LLM sono stati impiegati per generare descrizioni dettagliate delle mansioni per centinaia di occupazioni censite in ogni decennio, un compito immane data la scarsità di fonti storiche strutturate come l’attuale database O*NET.

Il risultato è una mappa dinamica che mostra quali compiti e quali professioni sono stati più esposti alle diverse ondate tecnologiche, dalla macchina a vapore al software.

Due secoli di progresso a favore di skill e donne

L’analisi storica del NBER conferma, dati alla mano, la visione prevalente dello skill-biased technological change (SBTC). La tecnologia, dalla meccanizzazione all’elettrificazione, ha sistematicamente sostituito le mansioni manuali, spingendo la forza lavoro verso compiti più complessi. L’impatto è stato profondo: è aumentata la domanda per occupazioni con requisiti di istruzione più elevati e salari più alti.

Un esempio storico citato è quello della macchina per la produzione di cilindri di vetro (brevetto US 814.612), che ha spazzato via intere professioni artigianali altamente qualificate (i soffiatori di vetro) sostituendole con operai meno specializzati.

Altro esempio illuminante è l’introduzione delle calcolatrici (brevetto US 1.138.792) che non ha sostituito i contabili, ma ne ha potenziato le capacità, automatizzando i calcoli di routine e liberando tempo per attività a maggior valore aggiunto come l’analisi di bilancio.

Ma l’impatto della tecnologia non si esaurisce nella sola riorganizzazione delle mansioni. Lo studio del NBER evidenzia un ulteriore effetto: gli spillover di produttività a livello settoriale. L’innovazione, infatti, oltre ad avere effetto di sostituzione o potenziamento dei lavoratori, può rendere intere industrie più efficienti, stimolando la domanda e, di conseguenza, la crescita occupazionale complessiva. I dati sono eloquenti: un aumento di una deviazione standard nella crescita dei brevetti rilevanti per un’industria è associato a un aumento dell’occupazione tra l’8% e il 10% nel decennio successivo. La tecnologia e l’innovazione, quindi, hanno agito storicamente su un doppio binario: da un lato hanno trasformato radicalmente alcune professioni, dall’altro hanno funzionato come un motore di crescita per i settori più innovativi.

Questo processo ha alimentato la “corsa tra istruzione e tecnologia” e ha sostenuto la crescita dell’occupazione femminile, concentrata nei settori dei servizi e impiegatizi che richiedevano quelle competenze cognitive e relazionali che la tecnologia stava premiando.

Lo studio inoltre rileva che la polarizzazione del lavoro – lo svuotamento delle professioni a media qualifica – non è un fenomeno esploso negli anni ’80 dello scorso secolo, ma ha radici più antiche che risalgono a inizio Novecento.

Perché l’AI cambia le regole del gioco

L’impatto dell’innovazione, tuttavia, non è mai stato un blocco monolitico. Il modello teorico proposto dagli autori evidenzia una dinamica fondamentale: l’effetto sul lavoro dipende da come la tecnologia colpisce le mansioni di un’occupazione. Se una tecnologia migliora la produttività di tutte le mansioni (alta esposizione media), il risultato è una netta riduzione della domanda di lavoro. Se invece l’innovazione si concentra solo su un sottoinsieme di mansioni, l’effetto può essere neutro o positivo, poiché i lavoratori riallocano il loro tempo verso compiti complementari.

Qui si innesta la grande inversione. Per 150 anni, la tecnologia ha significato soprattutto automazione dello sforzo manuale. La risposta strategica è stata aumentare le competenze cognitive. L’intelligenza artificiale, per la prima volta, sostituisce su larga scala proprio le mansioni cognitive. L’analisi storica del NBER mostra una prima avvisaglia di questo trend nell’avvento del computer: se prima degli anni ’60 l’esposizione a tecnologie “cognitive” era legata a un aumento dell’occupazione, dopo la rivoluzione ICT la relazione si è invertita, diventando negativa.

Oggi l’IA generativa accelera questo processo in modo esponenziale. Il modello calibrato dai ricercatori simula l’IA come una tecnologia che automatizza i compiti cognitivi che non richiedono un’esperienza pregressa significativa, come la stesura di report, l’analisi di dati o la scrittura di codice base.

Le previsioni: chi vince e chi perde

I risultati della simulazione ribaltano le tendenze del XX secolo. Il modello prevede un calo della domanda relativa per le occupazioni ad alta istruzione e ad alto salario, come manager (-0,59% annuo rispetto alle professioni a salario medio), professionisti e tecnici (-0,85%), che sono le categorie che per decenni hanno beneficiato del progresso tecnologico.

Lo scenario prevede, al contrario, una domanda in crescita per le occupazioni a bassa istruzione e bassi salari, e significativamente, per quelle a più alta predominanza maschile, spesso legate a servizi manuali (costruzioni, trasporti, logistica) o a mansioni interpersonali non facilmente automatizzabili.

Quanto alle differenze di genere, la domanda di lavoro per le occupazioni a più alta intensità femminile è prevista in calo dello 0,53% annuo rispetto a quelle a più alta intensità maschile.

Implicazioni per industria e policy: una bussola per il futuro

Se queste previsioni si rivelassero corrette, le implicazioni per le politiche industriali e formative sarebbero profonde.

Innanzitutto, il valore premiale della laurea potrebbe comprimersi e l’istruzione universitaria tradizionale non basterà più. Le imprese e i governi dovranno ripensare i percorsi formativi, spostando il focus dalle sole competenze tecniche (che l’IA potrebbe automatizzare) a quelle che restano unicamente umane.

L’elemento che farà la differenza per la competitività futura sono le mansioni interpersonali. In tutto il campione storico, l’esposizione tecnologica di compiti come la negoziazione, la gestione di team, l’assistenza al cliente e la leadership non ha mostrato alcun legame sistematico con i cambiamenti occupazionali. Queste “social skills” appaiono come la vera “assicurazione” contro l’automazione. Per le aziende, investire sulla formazione relazionale e manageriale diventa quindi una priorità strategica.

A questa sfida si aggiunge una dimensione generazionale. L’analisi del NBER rivela che l’impatto dell’automazione non è uniforme tra le coorti di lavoratori. L’effetto negativo della sostituzione tecnologica aumenta costantemente con l’età, colpendo in modo sproporzionato i lavoratori più anziani, il cui capitale umano rischia un’obsolescenza più rapida. I più giovani si dimostrano invece molto più abili nel trarre vantaggio dalla riallocazione delle mansioni, catturando i guadagni di produttività. Questo gap generazionale sottolinea l’urgenza di politiche di lifelong learning e riqualificazione mirate non solo ai giovani in entrata, ma soprattutto a chi, a metà o fine carriera, deve reinventare le proprie competenze per non essere lasciato indietro.

Lo studio impone infine anche una riflessione sulle politiche sociali. Il progresso tecnologico dello scorso secolo è stato un potente motore di emancipazione femminile. Se l’IA inverte questa tendenza esiste il rischio concreto di un allargamento dello gender gap.

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