Nel corso delle giornate di sabato 8 e domenica 9 giugno 2025 gli elettori italiani saranno chiamati ad esprimersi su cinque quesiti referendari. Quattro di questi si concentrano specificamente sul mondo del lavoro.
Informarsi è sicuramente utile per maturare una scelta consapevole, soprattutto quando si tratta di argomenti di grande rilevanza per il sistema produttivo nazionale. Analizziamo quindi in dettaglio i quattro quesiti relativi al lavoro, presentando per ciascuno di essi il quadro normativo attuale e le modifiche proposte in caso di vittoria del “Sì”, insieme alle diverse prospettive sulle possibili conseguenze.
Indice degli argomenti
La disciplina dei licenziamenti illegittimi e il contratto a tutele crescenti
Il primo quesito referendario in materia di lavoro interviene sulla disciplina dei licenziamenti individuali illegittimi nelle imprese con più di 15 dipendenti e, in particolare, sul cosiddetto “contratto a tutele crescenti” introdotto dal Decreto Legislativo 23/2015, uno dei provvedimenti attuativi della Legge 183/2014 (il “Jobs Act”).
Prima dell’entrata in vigore di questa normativa, la tutela principale in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato nelle aziende con più di quindici dipendenti era la reintegrazione nel posto di lavoro (articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, Legge 300/1970), salvo specifiche eccezioni, accompagnata da un risarcimento del danno.
Il contratto a tutele crescenti ha modificato questo approccio per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015. Per questi lavoratori, in caso di licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice, la tutela principale non è più la reintegrazione (salvo casi molto limitati, come il licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale), ma un indennizzo economico. Questo indennizzo ha un ammontare prefissato, legato all’anzianità di servizio del lavoratore, e un limite massimo. Inizialmente, l’indennizzo era fissato tra 4 e 24 mensilità, con un incremento all’aumentare dell’anzianità. Successive pronunce della Corte Costituzionale sono intervenute per dichiarare l’illegittimità costituzionale di alcuni aspetti di questa rigida predeterminazione, introducendo una maggiore possibilità per il giudice di modulare l’indennizzo all’interno di un intervallo, tenendo conto di specifici criteri.
Il quesito referendario propone l’abrogazione integrale del Decreto Legislativo 23/2015. L’effetto di una tale abrogazione, in caso di vittoria del “Sì”, sarebbe quello di eliminare la disciplina del contratto a tutele crescenti e ripristinare, per tutti i lavoratori con contratto a tempo indeterminato (indipendentemente dalla data di assunzione), il regime sanzionatorio previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori nella versione antecedente al Jobs Act. Ciò significherebbe, per i lavoratori delle aziende con più di quindici dipendenti (o con più di cinque se agricole), il ritorno alla reintegrazione nel posto di lavoro come regola generale in caso di licenziamento illegittimo non discriminatorio, salvo specifiche ipotesi che già prima del 2015 prevedevano la sola tutela economica.
I sostenitori dell’abrogazione – CGIL in primis – argomentano che il Jobs Act ha eccessivamente indebolito la posizione del lavoratore, riducendo la tutela contro i licenziamenti illegittimi a un mero costo per l’impresa, potenzialmente incoraggiando espulsioni arbitrarie. La paura del licenziamento, non mitigata dalla prospettiva della reintegrazione, potrebbe limitare la libertà dei lavoratori e incidere negativamente sulla qualità del lavoro. La discrezionalità del giudice, secondo l’attuale normativa, è limitata. Secondo i promotori del referendum, quindi, il ripristino dell’articolo 18 ante-Jobs Act rappresenterebbe un passo per rafforzare i diritti individuali dei lavoratori.
Coloro che si oppongono all’abrogazione, invece, sostengono che il contratto a tutele crescenti abbia contribuito a rendere il mercato del lavoro più dinamico e attrattivo per gli investimenti, riducendo l’incertezza per le imprese legata al costo potenziale dei licenziamenti. A loro avviso la reintegrazione potrebbe rappresentare un onere eccessivo per le aziende, specialmente in un contesto di difficoltà economica, e che l’indennizzo economico rappresenti una soluzione più equilibrata che risarcisce il lavoratore pur consentendo all’impresa di riorganizzarsi. Il ritorno al regime precedente – si spiega – disincentiverebbe le assunzioni a tempo indeterminato e aumenterebbe il contenzioso legale, con tempi e costi incerti per le aziende. Un’ulteriore argomentazione dei sostenitori del No è che le modifiche apportate dalla Corte Costituzionale abbiano già mitigato gli aspetti più rigidi della disciplina originaria del Jobs Act.
Le tutele in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese
Il secondo referendum si concentra sulle conseguenze economiche dei licenziamenti illegittimi nel caso dei lavoratori impiegati in imprese di dimensioni ridotte.
Attualmente per i datori di lavoro che non superano la soglia dimensionale prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori – generalmente, le aziende con meno di quindici dipendenti nel settore non agricolo o con meno di cinque in quello agricolo – la normativa in caso di licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice prevede una tutela di tipo risarcitorio. Diversamente dalle imprese di maggiori dimensioni dove, in determinate circostanze, può scattare il diritto alla reintegrazione (a seconda del regime normativo applicabile e del motivo dell’illegittimità), nelle piccole imprese la conseguenza è il versamento di un’indennità economica al lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo.
Le norme attuali stabiliscono un limite massimo per l’indennità economica dovuta in questi casi al lavoratore. Indipendentemente dalla valutazione che il giudice può dare circa l’infondatezza del licenziamento, l’importo massimo che può essere riconosciuto al lavoratore a titolo di risarcimento è di sei mensilità della retribuzione globale di fatto. Questo limite rappresenta un tetto invalicabile per il giudice nel quantificare il danno subito dal lavoratore a causa di un licenziamento riconosciuto come illegittimo.
Il quesito referendario in esame propone l’abrogazione della specifica parte della normativa (riferita alle piccole imprese) che fissa questo limite massimo di sei mensilità per l’indennizzo dovuto in caso di licenziamento illegittimo. L’obiettivo dei promotori, in caso di approvazione del referendum, è rimuovere questo tetto all’indennizzo economico. Con l’abrogazione, verrebbe meno la predeterminazione rigida dell’importo massimo e si restituirebbe al giudice la piena facoltà di determinare l’ammontare dell’indennizzo. Questa determinazione dovrebbe avvenire sulla base di criteri che tengano conto delle specificità del caso concreto, come ad esempio la capacità economica dell’azienda, i carichi familiari del lavoratore licenziato e la sua età. L’intento è quindi quello di permettere al giudice di stabilire un risarcimento ritenuto più equo e adeguato alla situazione individuale del lavoratore e alle condizioni dell’impresa, senza essere vincolato al limite massimo attuale.
I sostenitori di questo referendum argomentano che il limite attuale di sei mensilità per le piccole imprese sia insufficiente a garantire un adeguato ristoro economico al lavoratore illegittimamente licenziato. Ritengono che tale limite possa rendere “conveniente” per alcune imprese procedere a licenziamenti anche in assenza di valide motivazioni, poiché il costo massimo è predeterminato e limitato. Sottolineano che la fissazione di un tetto massimo, indipendentemente dalle circostanze specifiche e dal danno effettivamente subito dal lavoratore, lede i principi di giustizia e proporzionalità. L’abrogazione, dal loro punto di vista, ripristinerebbe la piena valutazione del giudice e garantirebbe un indennizzo maggiormente commisurato alla situazione, offrendo una tutela economica più efficace ai lavoratori delle piccole realtà produttive.
Chi si oppone all’abrogazione esprime invece preoccupazione per l’aumento dell’incertezza e dei potenziali costi per le piccole imprese. Il limite di sei mensilità offre infatti alle piccole realtà imprenditoriali la necessaria prevedibilità dei costi legati al personale e al contenzioso, elemento fondamentale per la pianificazione economica e finanziaria. Rimuovere questo limite e lasciare ampia discrezionalità al giudice, secondo chi è per il “No”, potrebbe esporre le piccole imprese a richieste di risarcimento potenzialmente molto elevate, mettendo a rischio la loro stabilità economica e disincentivando l’assunzione di personale. Le piccole imprese, infatti, non hanno la stessa struttura e le stesse risorse delle grandi aziende per affrontare contenziosi complessi e risarcimenti elevati.
La regolamentazione dei contratti a termine
Il terzo quesito referendario riguarda la disciplina dei contratti di lavoro subordinato a tempo determinato.
La normativa in materia è stata oggetto di numerosi interventi nel corso degli anni, tutti volti a bilanciare l’esigenza di flessibilità per le imprese con la necessità di contrastare l’abuso della precarietà e favorire la stabilità occupazionale.
Attualmente il Decreto Legislativo 81/2015 disciplina in modo organico i contratti di lavoro, incluso il contratto a termine. La norma vigente prevede che il contratto a tempo determinato possa essere stipulato liberamente, senza l’obbligo di specificare una causale che giustifichi l’apposizione del termine, per un periodo massimo iniziale non superiore a dodici mesi. Solo per durate superiori ai dodici mesi, e comunque non eccedenti i ventiquattro mesi totali (inclusi eventuali rinnovi e proroghe, con alcune eccezioni), è richiesta la presenza di specifiche condizioni giustificatrici (le cosiddette “causali”), individuate dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
Il quesito referendario propone l’abrogazione della parte della norma che consente la stipulazione di contratti a termine per dodici mesi senza l’obbligo di indicare una causale. In caso di vittoria del “Sì” l’effetto sarebbe quindi il ripristino dell’obbligo di specificare sempre una causale che giustifichi l’apposizione del termine, fin dal primo giorno di contratto, indipendentemente dalla sua durata (nei limiti massimi complessivi previsti dalla legge). Ciò significherebbe un ritorno a un modello normativo più simile a quello in vigore prima delle modifiche introdotte negli anni recenti, in cui il ricorso al contratto a termine era maggiormente legato a esigenze temporanee e contingenti specificamente motivate.
I sostenitori dell’abrogazione denunciano l’eccessiva diffusione del lavoro precario in Italia e ritengono che la possibilità di utilizzare contratti a termine senza causale per un anno favorisca la cosiddetta “giostra” dei contratti a tempo, impedendo la stabilizzazione dei lavoratori e creando incertezza e difficoltà nella costruzione di percorsi professionali duraturi. Argomentano che l’obbligo di una causale sin dall’inizio del rapporto a termine rappresenterebbe un freno all’uso distorto di questo strumento contrattuale, incentivando le imprese ad assumere con contratti a tempo indeterminato quando le esigenze non sono realmente temporanee. Vedono in questa modifica uno strumento per rafforzare la tutela dei lavoratori, in particolare dei giovani che sono spesso i più colpiti dalla precarietà.
Chi invece si oppone all’abrogazione sostiene che la flessibilità introdotta dalla possibilità di contratti a termine senza causale per i primi dodici mesi sia essenziale per le imprese, consentendo loro di rispondere rapidamente alle fluttuazioni del mercato e alle esigenze produttive, di testare nuove assunzioni e di gestire picchi di lavoro senza assumersi immediatamente l’onere di un contratto a tempo indeterminato. Il ripristino dell’obbligo generalizzato di causale renderebbe più rigido il mercato del lavoro e potrebbe disincentivare le assunzioni, specialmente in contesti economici incerti. Ci sarebbe inoltre un aumento del contenzioso legale legato alla valutazione delle causali e una minore capacità delle imprese di adattarsi velocemente ai cambiamenti.
La responsabilità solidale negli appalti
Il quarto quesito referendario in materia di lavoro affronta il tema della sicurezza sul lavoro e, in particolare, la responsabilità solidale nei contratti di appalto e subappalto.
L’attuale normativa, contenuta principalmente nel Decreto Legislativo 81/2008 (il Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sul Lavoro), prevede che in caso di appalto o subappalto, il datore di lavoro committente sia tenuto a verificare l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o subappaltatrici e a fornire loro informazioni dettagliate sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare. La norma attuale, tuttavia, stabilisce anche che il committente non risponde in solido con l’appaltatore o il subappaltatore per i danni subiti dal lavoratore imputabili ai rischi specifici propri dell’attività dell’impresa appaltatrice o subappaltatrice. Questo significa che, in caso di infortunio o malattia professionale, il lavoratore danneggiato deve rivolgersi primariamente all’impresa presso cui è formalmente impiegato, e la responsabilità del committente è limitata ai soli aspetti legati alla valutazione dei rischi generali dell’ambiente di lavoro e alla verifica dell’idoneità delle imprese appaltatrici.
Il quesito referendario propone l’abrogazione della specifica parte dell’articolo 26 del D.Lgs. 81/2008 che esclude la responsabilità solidale del committente per i danni derivanti da rischi specifici dell’attività dell’appaltatore o subappaltatore. In caso di vittoria del “Sì”, verrebbe meno questa esclusione e il committente tornerebbe a rispondere in solido con l’appaltatore e il subappaltatore per tutti i danni risarcibili subiti dai lavoratori nell’esecuzione dell’appalto, inclusi quelli derivanti dai rischi specifici dell’attività appaltata. La responsabilità solidale consentirebbe al lavoratore danneggiato di rivolgersi indifferentemente al committente, all’appaltatore o al subappaltatore per ottenere il pieno risarcimento del danno subito.
I sostenitori dell’abrogazione argomentano che l’attuale esclusione di responsabilità del committente per i rischi specifici crea una “zona grigia” in cui la sicurezza dei lavoratori negli appalti può essere compromessa. Ritengono poi che la responsabilità solidale sia uno strumento efficace per incentivare il committente a esercitare un controllo più stringente e continuo sull’effettiva applicazione delle norme di sicurezza da parte delle imprese appaltatrici e subappaltatrici. Spesso poi il committente detiene il controllo effettivo del luogo di lavoro e delle procedure e pertanto sarebbe giusto e necessario che risponda anch’esso degli infortuni, garantendo al lavoratore danneggiato una maggiore certezza di ottenere il risarcimento. Questa modifica quindi viene vista come un passo fondamentale per ridurre gli infortuni e le morti sul lavoro.
Chi si oppone all’abrogazione esprime preoccupazione per l’eccessivo aggravio di responsabilità e oneri che ricadrebbe sul committente. Non sarebbe giusto né proporzionato attribuire al committente una responsabilità solidale per rischi che sono intrinsecamente legati all’attività specialistica svolta dall’impresa appaltatrice, la quale è professionalmente attrezzata per gestirli. Un aumento della responsabilità potrebbe inoltre disincentivare le imprese a ricorrere all’istituto dell’appalto, essenziale per molte attività produttive e di servizi, con conseguenze negative sull’efficienza e sull’organizzazione del lavoro. Un ulteriore argomento dei sostenitori del “No” è che la normativa attuale già prevede oneri e responsabilità per il committente (verifica dell’idoneità, informazione sui rischi generali) e che sia sufficiente rafforzare l’applicazione di tali previsioni piuttosto che estendere la responsabilità solidale.