Fuggetta: “Cultura d’impresa e modello organizzativo i pilastri dell’innovazione in azienda”

Nel libro ‘Il Paese innovatore’ pubblicato da Egea, Alfonso Fuggetta, professore ordinario di informatica al Politecnico di Milano, spiega metodi e strategie per fare di un’azienda una realtà innovativa. Pregi e difetti dei quattro modelli organizzativi che abilitano i processi di innovazione, ma guai a cadere nella tentazione di voler fare tutto da soli…

Pubblicato il 30 Ott 2020

Alfonso Fuggetta - Il Paese Innovatore

Le imprese non possono innovare da sole, contando solo sulle proprie forze e competenze. O almeno non sempre. Devono avere strutture interne dedicate all’innovazione, ma non possono non aprirsi a contributi esterni: è questo il senso vero dell’espressione open innovation. E se spesso questa espressione è associata a specifici strumenti come le startup o gli hackathon, l’open innovation è soprattutto un’attitudine dell’azienda e delle persone che la muovono, un modo di essere e operare aperto al contributo di intelligenze esterne all’impresa, siano esse startup, altre imprese, università, centri di ricerca, singoli professionisti. Senza apertura mentale, disponibilità al confronto, curiosità, apprezzamento delle capacità altrui non ci sarà mai open innovation. Come costruire quindi un’azienda che sappia realmente innovare? “Due sono gli snodi: cultura aziendale e modello organizzativo”, rimarca Alfonso Fuggetta – professore di informatica al Politecnico di Milano, e dal 2003 amministratore delegato e direttore scientifico del Cefriel –, nel suo libro Il Paese innovatore pubblicato da Egea.

L’espressione ‘cultura aziendale’ è spesso abusata, ma non c’è dubbio che se le diverse anime dell’azienda non sono inclini, aperte, pronte ad abbracciare attività e processi di innovazione, non basteranno slogan o dichiarazioni di principio a farla accadere. “Azionisti, manager, dirigenti, professionisti devono essere tutti disposti a investire, imparare, rischiare, cambiare, innovare per l’appunto”, sottolinea Fuggetta, “servono mentalità, risorse economiche, modelli di valutazione e remunerazione, intelligenza ed equilibrio nel coniugare la continuità delle attività operative dell’impresa con l’avvio di processi di innovazione e cambiamento di prodotti, servizi e processi”.

Servono in particolare modelli organizzativi che abilitino e sostengano i processi di innovazione. Nel tempo, sono stati sperimentati e messi in campo diversi approcci. Un primo approccio è quello dell’innovazione diffusa: tutti in azienda se ne occupano e non ci sono strutture dedicate che se ne fanno carico in modo specifico, se non figure apicali (CTO, per esempio). È il modello adottato da Apple, plasmata dal genio, dal carisma e dalla leadership di Steve Jobs. È efficace solo in presenza di una cultura aziendale e di figure di leadership che promuovano e finalizzino le attività di innovazione.

Un secondo modello, spiega Fuggetta, si basa su un’unica struttura di innovazione, che esplora e convoglia idee innovative per tutte le unità di business dell’impresa. È un modello “che crea sì focalizzazione sulle tematiche di innovazione”, rileva l’amministratore delegato e direttore scientifico del Cefriel, ma questa tipologia di struttura “corre il rischio di restare separata e di soffrire di uno scarso coordinamento con le componenti dell’impresa più vicine al mercato e ai clienti.”

Un terzo modello prevede strutture di innovazione in ogni business unit e divisione aziendale e una struttura centrale leggera che indirizza, coordina e raccorda le attività delle diverse unit. E in questo caso Fuggetta osserva: “è un modello che presenta certamente una maggiore vicinanza ai problemi del business, ma apre anche a rischi di conflitti, aumento dell’entropia e del «rumore» tra le diverse strutture. Indubbiamente questo approccio permette di aumentare il livello di coordinamento delle iniziative, ma espone anche al rischio di un’innovazione parcellizzata e molto legata ai bisogni a breve delle singole divisioni”.

Mettere insieme tecnologie, organizzazione e persone

Un quarto modello prevede strutture di innovazione esterne all’azienda (a volte si usa l’espressione spin-out). Questa soluzione è utilizzata per evitare che un’iniziativa venga soffocata dalle dinamiche tradizionali dell’impresa (specialmente se di grandi dimensioni). Per questo motivo si preferisce creare una struttura esterna che conduca il progetto di innovazione in modo autonomo, salvo poi ricondurre questa iniziativa all’interno delle strutture aziendali nel momento in cui si tramutasse in qualcosa di realmente sfruttabile commercialmente.

“In realtà, queste distinzioni aprono uno spazio enorme di riflessione su che cosa voglia dire progettare in senso lato l’impresa, i suoi prodotti e i suoi servizi. Federico Butera, insieme a Giorgio De Michelis e ad altri colleghi, da tempo spiega che la progettazione del lavoro deve necessariamente mettere insieme tecnologie, organizzazione e persone”, è l’analisi illustrata da Fuggetta ne ‘Il Paese innovatore’: “non è quindi possibile esaminare queste dimensioni indipendentemente l’una dall’altra: serve sempre una visione olistica che sappia ricondurre a unitarietà gli interventi che di volta in volta sono attuati”.

Fuggetta: “Nessun modello è perfetto e senza rischi”

Nessun modello è perfetto ed esente da rischi. Il successo dipende dalla capacità e dalla visione dei manager e dalla cultura dell’impresa: se tutti sono orientati a ricercare innovazione e a promuoverla all’interno dell’azienda, se esiste un management che sa guardare avanti e gestire conflitti e dissidi, anche i problemi e le complessità si affrontano e risolvono.

Qualunque sia il modello organizzativo per innovare, ci sono alcuni strumenti e processi che si possono utilizzare, come forum di discussione, sessioni di brainstorming, scouting, call for ideas, hackathon, demo lab. Ma anche attività di corporate venture capital, partnership, collaborazioni di lungo periodo con centri di ricerca, strutture esterne, università, in grado di garantire un flusso continuo di idee e di conoscenze.

No, non è vero che “possiamo fare da soli”

Tutti questi strumenti possono essere utilizzati anche in combinazione tra loro, in funzione dei bisogni e degli obiettivi dell’impresa e anche dello specifico contesto nel quale essa si trova di volta in volta ad agire. Possono inoltre essere utilizzati da pool di imprese in modo sinergico, specialmente se Pmi e quindi meno in grado di condurre questi processi in modo autonomo.

Ma per fare tutto ciò, servono risorse e contributi esterni, giovani da inserire nelle strutture operative dell’azienda, collaborazioni e partnership con centri di competenza, università, aziende specializzate. L’illusione più pericolosa è quella secondo la quale “possiamo fare da soli, anzi siamo noi quelli più avanti di tutti”. Innovazione, insomma, è apertura mentale, reale volontà di cambiamento, costante insoddisfazione e ricerca di nuove idee, incessante disponibilità all’interazione e alla collaborazione.

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Stefano Casini

Giornalista specializzato nei settori dell'Economia, delle imprese, delle tecnologie e dell'innovazione. Dopo il master all'IFG, l'Istituto per la Formazione al Giornalismo di Milano, in oltre 20 anni di attività, nell'ambito del giornalismo e della Comunicazione, ha lavorato per Panorama Economy, Il Mondo, Italia Oggi, TgCom24, Gruppo Mediolanum, Università Iulm. Attualmente collabora con Innovation Post, Corriere Innovazione, Libero, Giornale di Brescia, La Provincia di Como, casa editrice Tecniche Nuove. Contatti: stefano.stefanocasini@gmail.com

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