Da meno di due anni (anche se sembra un’eternità) i grandi modelli linguistici (LLM), comunemente etichettati come intelligenza artificiale generativa, hanno dimostrato di essere degli strumenti capaci di dialogare con una raffinatezza che pochi avrebbero previsto. A ben pensarci, l’avvento della Gen AI non rappresenta soltanto un’evoluzione degli strumenti di calcolo o di automazione. È un “evento” che incide direttamente sulla cultura, costringendo a riconsiderare una delle caratteristiche che fino a ieri si riteneva distintiva dell’essere umano: la padronanza della parola. Se oggi esistono “dei cosi che parlano”, come li definisce provocatoriamente Luca Mari, professore alla LIUC di Castellanza e studioso dei rapporti tra tecnologia e pensiero, allora la domanda sul ruolo dell’uomo, e in particolare del professionista tecnico, diventa ineludibile.
L’OPINIONE
L’industria al bivio dell’IA: dal dire al fare, passando per Platone e Dostoevskij
L’avvento dell’IA generativa è una trasformazione culturale che costringe l’industria a ripensare l’interazione uomo-macchina. Piuttosto che sostituire i sistemi esistenti, i chatbot si propongono come interfacce conversazionali universali, con un’evoluzione che sposta il valore dalle sole competenze tecniche – le hard skills – alla capacità di formulare domande precise. Si rivaluta così la formazione umanistica come strumento strategico per i professionisti del futuro. L’opinione di Luca Mari, professore alla LIUC di Castellanza.

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