Competenze digitali: il lavoro c’è ma l’istruzione arranca

Pubblicato il 06 Giu 2017

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La terza edizione dell’Osservatorio delle Competenze Digitali dà risultati ambigui: siamo un Paese con una forte propensione all’economia digitale ma che fatica a crearsi le competenze necessarie a supportarla: manca una strategia di lungo periodo che coinvolga aziende e sistema formativo, una visione d’insieme che coordini i percorsi della Trasformazione Digitale. E mentre il mercato del lavoro promette una rapida evoluzione, l’istruzione rischia di rimanere indietro, senza riuscire a fornire le figure professionali richieste dalle aziende. È questo che emerge dai dati raccolti dalle principali associazioni ICT – AICA, Assinform, Assintel e Assinter Italia – con il supporto del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e dell’Agenzia per l’Italia Digitale.

I dati promettenti sul lavoro

 La Domanda di professioni ICT è in costante aumento: questo il dato positivo che emerge dai 175.000 annunci di lavoro su web analizzati nell’ultimo triennio, 60.000 quelli nel solo 2016. Ogni anno la richiesta di professioni ICT cresce mediamente del 26%, con picchi del 90% per le nuove professioni legate alla Trasformazione Digitale come i Business Analyst e i gli specialisti dei Big Data, a sottolineare l’evoluzione verso l’azienda “data driven”. Cresce complessivamente del 56% la richiesta delle nuove professioni digitali: specialisti in Cloud, Cyber Security, IoT, Service Development, Service Strategy, Robotics, Cognitive & Artificial Intelligence. C’è decisamente più richiesta nel Nord ovest, in cui si concentra il 48% della Domanda.

Rispetto invece alle professioni “classiche” dell’ICT, tiene la richiesta di Analisti Programmatori, in costante crescita (+24% lo scorso anno): stiamo parlando di ben 80.000 annunci di lavoro nel triennio 2013-2016. Sono 27.000 gli annunci relativi a posizioni di System Analyst (+30% nell’utlimo anno) e 13.000 quelli per il Digital Media Specialist, con un picco del +60% per il Web Developer.

Anche sul fronte dello stipendio, l’ICT paga: nelle aziende del settore, le retribuzioni nel 2016 sono cresciute con picchi del +5,7% per i livelli impiegatizi e del +4,9% per i Dirigenti. Un Analista Programmatore, per citare la figura più diffusa, in media guadagna l’anno 31.357 euro lordi (se impiegato), 48.509 euro se quadro.

L’istruzione che arranca

Il lavoro c’è ma ma molte posizioni restano scoperte. La stima è che nel triennio 2016-2018 si potrebbero creare 85.000 nuovi posti di lavoro che richiedono specializzazione in ICT, a fronte di un’occupazione complessiva che potrebbe salire da qui al 2018 del 3,5% annuo e raggiungere le 624.000 unità. Di questi 85.000 nuovi posti di lavoro creati, fino a circa 28.000 sono riferibili al 2016, come riscontrato nelle web vacancies per le posizioni fino a due anni di esperienza. Per queste posizioni il mercato richiede il 62% di laureati e il 38% di diplomati, ma il nostro sistema formativo propone troppi diplomati (8.400 in eccesso) e troppo pochi laureati in percorsi ICT (deficit di 4.400). La buona notizia è che le immatricolazioni in facoltà dell’area ICT crescono di anno in anno, sono 26.000 nell’attuale anno accademico segnando un +11% rispetto a quello precedente,  tuttavia è alto il tasso di abbandono (60%), soprattutto nelle triennali di informatica.

Nei percorsi universitari stanno via via entrando le competenze legate a Big Data, Data Science, Cybersecurity ma resta trascurato il Cloud. Nelle facoltà non ICT le competenze digitali sono invece trascurate, nessuna formazione in proposito per circa la metà dei 4.362 corsi di laurea esistenti. Stanno in compenso aumentando, seppur lentamente, le collaborazioni fra scuola, università, imprese e associazioni: è decisamente un’area strategica da amplificare, superando i problemi legati alla dispersione del quadro normativo, al coordinamento organizzativo e all’accesso agli incentivi.

La domanda di nuovi profili digitali dal punto di vista di imprese e Pubblica Amministrazione è stata analizzata con un panel qualitativo e ha evidenziato la domanda crescente di nuovi profili legati all’innovazione dei processi, dei prodotti e delle strategie in ottica digitale.

Di cosa ha bisogno il mercato del lavoro

Ciò che oggi è determinante è lo Skill Digital Rate, ovvero il grado di pervasività delle competenze digitali all’interno di una singola professione richiesta dal mercato: secondo l’analisi delle web vacancies nel 2016 nelle professioni ICT queste incidono in media per il 68%, con picchi dell’80% per le nuove figure legate agli ambiti IoT, Mobile, Cloud; mentre nelle altre professioni l’incidenza è crescente, legata sia ai cambiamenti sulle aree di automazione nei processi stimolati di Industria 4.0 (63,6% ) sia nella relazione digitale con il cliente dei settori Servizi e Commercio (54,6%).

L’85% delle PA intervistate, invece, hanno bisogno di competenze digitali per far fronte alla digitalizzazione dei servizi a cittadini e imprese, legati ad esempio a Spid, PagoPA, Fascicolo Sanitario Elettronico. Ma è difficile reperirle all’esterno, causa blocco delle assunzioni, o farle evolvere in risorse già esistenti, per la difficoltà nel distoglierle da altre attività core.

I dipendenti più difficili da reperire per la filiera ICT sono il Business Analyst, il Project Manager e il Security Analyst. Nelle aziende utenti, i profili comuni più critici sono il Responsabile Sistemi Informativi, l’ICT Security Manager e il Project Manager.

Ma se lanciamo lo sguardo alle professioni del futuro, lo scenario cambia. Le nuove professioni si chiameranno Change Manager, Agile Coach, Technology Innovation Manager, Chief Digital Officer, IT Process & Tools Architect e saranno costituite da un mix più articolato di competenze, per governare strategicamente i cambiamenti imposti dalle aree Big Data, Cloud, Mobile, Social, IoT e Security. Saranno soprattutto figure fatte da un impasto di skill tecnologiche, manageriali e soft skills quali leadership, intelligenza emotiva, pensiero creativo e gestione del cambiamento.

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Redazione

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