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Come riconoscere – e affrontare – i veri cambiamenti disruptive



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Secondo l’analista di Gartner Daryl Plummer, per governare la disruption le aziende non devono commettere l’errore di valutare solo gli effetti iniziali. I veri cambiamenti disruptive sono quelli che hanno il maggior potenziale trasfomativo negli effetti secondari, le “onde lunghe” che modificano in modo permanente mercati e comportamenti. Per riconoscerle e affrontarle Plummer suggerisce di adottare un metodo basato su riconoscimento, prioritizzazione e autodisruption e di passare da un approccio reattivo a una strategia proattiva.

Pubblicato il 20 giu 2025



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Il termine “disruption” è ormai decisamente inflazionato. Distinguere le mode passeggere dalle reali forze di trasformazione sistemica è però fondamentale per ogni organizzazione che voglia navigare con successo nella complessità che caratterizza ormai ogni aspetto dei tempi moderni.

L’analista di Gartner Daryl Plummer, uno dei massimi esperti in materia, offre una prospettiva rigorosa per decodificare questo fenomeno, invitando i leader a guardare oltre l’evento scatenante – il “catalizzatore” – per concentrarsi sulle sue conseguenze a lungo termine, le uniche che sono realmente in grado di ridefinire mercati, modelli di business e comportamenti sociali. Plummer invita ad adottare un approccio proattivo fondato su tre pilastri: riconoscere, prioritizzare e rispondere.

Distinguere il segnale dal rumore

Una vera disruption non è un cambiamento temporaneo, ma un mutamento che altera in modo permanente un determinato ambiente o sistema. Molte variazioni, come quelle che possono interessare una catena di approvvigionamento per un breve periodo, sono destinate a rientrare. Plummer sottolinea che le forze realmente disruptive modificano in modo duraturo le dinamiche di mercato, le abitudini delle persone e gli ecosistemi di relazione. L’avvento dell’intelligenza artificiale generativa rappresenta un esempio evidente, una trasformazione la cui pervasività la rende innegabile. Eppure molte delle più significative disruption sono meno facili da individuare.

Si pensi all’edge computing, una tendenza in atto da tempo che sposta la capacità di calcolo dai data center centralizzati ai dispositivi “periferici”, come uno smartphone, un macchinario industriale o un veicolo. Questo cambiamento infrastrutturale ha abilitato una trasformazione comportamentale profonda. Ha reso possibile per chiunque operare da qualsiasi luogo con una potenza di calcolo un tempo inimmaginabile, creando quelli che Plummer definisce “nuovi scenari di valore”.

L’idea di poter acquistare un costume da bagno direttamente in spiaggia usando il proprio telefono era impensabile prima che la tecnologia lo rendesse possibile. Questo nuovo scenario ha creato un nuovo mercato, convincendo le persone a pagare per un servizio che prima non esisteva e alterando la relazione tra le persone, le attività e gli strumenti che le supportano.

La capacità di scalare a livello globale è un altro indicatore di una potenziale disruption. La scelta di Apple di separare la singola canzone dall’album, vendendola a un dollaro su iTunes, fu inizialmente giudicata folle. In realtà ha poi finito col rivoluzionare l’intera industria discografica, aprendo la strada ai servizi di streaming.

L’errore del catalizzatore e l’effetto onda

Forse la più grande errata percezione riguardo alla disruption è confonderla con il suo catalizzatore.

Plummer utilizza una metafora efficace: un masso che cade in un lago calmo. L’impatto iniziale, il grande schizzo, attira l’attenzione di tutti. Pochi però si preoccupano di dove il sasso andrà a finire sul fondale e, soprattutto, dell’effetto generato dalle onde che si propagano dalla zona dell’impatto. Quelle onde, se abbastanza grandi, possono danneggiare le banchine, far oscillare le barche e causare l’erosione della riva. Gli effetti di queste onde sono spesso più vasti e duraturi dello schizzo iniziale. Se il catalizzatore è l’evento visibile, la vera disruption risiede nelle sue conseguenze secondarie e terziarie.

L’esempio dei veicoli a guida autonoma è illuminante. La tecnologia in sé è il catalizzatore. Ma in un mondo in cui la guida autonoma fosse la norma, avrebbe ancora senso possedere un’automobile? Se un veicolo potesse venire a prenderci su richiesta, non avremmo più bisogno di garage, che potrebbero essere trasformati in spazi abitativi. I parcheggi multipiano negli edifici per uffici diventerebbero obsoleti.

E quale sarebbe l’impatto sull’industria assicurativa se nessuno acquistasse più polizze auto perché nessuno possiede più un’auto? In questo scenario, la vera e profonda disruption non è il veicolo autonomo, ma il potenziale collasso di un intero settore, quello assicurativo, come effetto a catena. Focalizzarsi solo sul catalizzatore significa prepararsi a gestire l’evento, mentre ignorare le onde successive significa esserne travolti.

Un metodo per governare il cambiamento

Per affrontare queste dinamiche i leader non possono permettersi un approccio troppo attendista. Plummer suggerisce quindi un processo strategico in tre fasi.

Riconoscere e prioritizzare

La prima fase consiste nel riconoscere i segnali deboli prima che diventino forze dominanti. La seconda è prioritizzare, e per farlo Plummer suggerisce uno strumento potente: la “sfida alle assunzioni”.

Si tratta di un esercizio da condurre a intervalli regolari in cui un team mette sistematicamente in discussione le assunzioni fondamentali su cui si basa il business. Nessuna assunzione deve essere considerata sacra. I nostri clienti stanno cambiando? I mercati che serviamo si stanno evolvendo? Le tecnologie emergenti potrebbero invalidare il nostro modello di prezzo? Questo processo costringe a riconsiderare la validità delle proprie convinzioni alla luce delle tendenze esterne e aiuta a identificare quali disruption richiedono un’attenzione immediata perché minacciano le fondamenta stesse dell’azienda.

Rispondere con l’autodisruption

La terza fase è la risposta, che deve essere aperta alla sperimentazione. Esistono diverse modalità di azione: si può attaccare il mercato di un concorrente (offensiva), difendere la propria posizione (difensiva) o provare a distruggere un mercato esistente (distruttiva).

Plummer spiega però che la disciplina più importante da padroneggiare è l’autodisruption. Significa avere il coraggio di cannibalizzare il proprio business prima che lo faccia qualcun altro. Padroneggiare questa capacità rende la risposta a qualsiasi minaccia esterna molto più semplice e trasforma l’organizzazione da soggetto passivo a protagonista del cambiamento.

Questo approccio si può applicare a molte delle attuali sfide come la crisi energetica, dove l’aumento esponenziale del consumo dovuto a IA e robotica sta già mettendo in crisi le infrastrutture esistenti, o la necessità di “agenti guardiani“, ovvero IA progettate per monitorare altre IA e garantirne la sicurezza e l’affidabilità. In entrambi i casi, la domanda più utile che un leader può porsi non è tanto sulla tecnologia in sé, ma sugli esiti che essa può generare e sui problemi che può risolvere. Spostare il focus dal “cosa” al “perché” è il passaggio definitivo verso una gestione matura e strategica della disruption.

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