L’intelligenza artificiale rappresenta un cambiamento di paradigma e si configura come una general purpose technology (come l’elettricità, la stampa o l’informatica), destinata a creare un “prima e un dopo” nel mondo del lavoro.
Di particolare rilevanza per il contesto italiano è il potenziale della tecnologia in termini di capacità di aumentare la produttività non solo delle singole organizzazioni, ma dell’intero sistema Paese.
Ma affinché questo potenziale possa concretizzarsi è necessario che le imprese accelerino nell’adozione della tecnologia. Sul tema infatti si registra ancora un forte divario tra le grandi aziende, più avanti nell’adozione, e le PMI che mostrano tassi di adozione ancora limitati.
L’adozione è infatti ostacolata in particolar modo dalla mancanza di competenze necessarie a lavorare in uno scenario sempre più ibrido, dove le tecnologie dell’IA diventano parte integrante dei team delle organizzazioni.
Il rapporto “IA e lavoro: nel cuore della trasformazione” elaborato da Confindustria fornisce una fotografia sullo stato di adozione della tecnologia e sulle strategie attuate dalle imprese.
Indice degli argomenti
La portata rivoluzionaria dell’AI e il posizionamento dell’Italia nello scenario internazionale
L’intelligenza artificiale si configura come una tecnologia fondata su tre pilastri interdipendenti: la disponibilità massiva di dati, l’evoluzione degli algoritmi e una potenza di calcolo accessibile a costi decrescenti.
“Tale assetto la rende assimilabile alle ‘General Purpose Technologies’ storiche, quali l’elettricità e internet, sebbene il confronto con il passato evidenzi un percorso di diffusione dai contorni ancora incerti rispetto alle curve di adozione del secolo scorso”, spiega Giovanni Morleo, Adviser Area Lavoro Welfare e Capitale Umano di Confindustria.
Le stime dell’OCSE sull’impatto futuro in termini di produttività del lavoro delineano una gerarchia netta: gli Stati Uniti si confermano i primi beneficiari, seguiti in ambito europeo dalla Germania.
In questo quadro, l’Italia sconta un ritardo strutturale posizionandosi davanti al solo Giappone tra i paesi G7, un divario che l’analisi imputa prevalentemente a una quota ancora insufficiente di servizi ad alto valore aggiunto e di manifattura avanzata all’interno del tessuto economico nazionale.

Tra “human augmenting” e competitività sistemica
Sul fronte occupazionale, il dibattito tende spesso a polarizzarsi tra il timore della sostituzione tecnologica e l’ottimismo per la creazione di nuovi ruoli.
Si tratta di due effetti – quello della distruzione e della creazione di opportunità – che esistono contemporaneamente. Per far sì che prevalga l’aspetto costruttivo è necessario un sistema che sappia costruire competenze digitali adeguate: solo così potrà prevalere l’effetto di “human augmenting”, dove l’intelligenza artificiale eleva l’efficienza, la qualità e la sicurezza del lavoro, anziché limitarsi a rimpiazzare l’attività umana.
Analizzando opportunità e rischi dal livello micro a quello macro, emerge una sfida complessa. Per i lavoratori l’opportunità risiede nella transizione verso mansioni a maggior valore aggiunto, a fronte del rischio di obsolescenza per i ruoli ripetitivi.
Per le imprese il pericolo maggiore è l’approccio di breve periodo: utilizzare l’AI esclusivamente per velocizzare processi esistenti, invece di ripensarli o esplorare nuovi orizzonti, significa perdere il treno dell’innovazione reale.
A livello di sistema Paese – come evidenziato anche dal recente rapporto Draghi – la partita si gioca sull’attrattività: accompagnare la transizione con investimenti in infrastrutture e competenze è l’unica via per attrarre capitali e talenti, evitando un pericoloso scivolamento competitivo.
Il mismatch di competenze e le contromisure delle imprese
Dall’indagine, che ha coinvolto un campione di circa 3.400 imprese, emerge che nella prima metà del 2025 il 70% delle aziende con posizioni aperte ha segnalato ostacoli nel trovare i profili ricercati, un trend che si mantiene sostanzialmente stabile nel tempo.
La carenza si concentra prevalentemente sulle competenze tecniche (sfiorando il 60%) e sulle mansioni manuali (46,3%), mentre appare meno critica per i ruoli manageriali, complice una domanda numericamente inferiore.
Di fronte a questo scenario, il sistema produttivo non rimane inerte: l’84% delle imprese attiva contromisure specifiche, privilegiando la formazione interna e le collaborazioni esterne.
Significativo è il rafforzamento del legame con il sistema educativo territoriale da parte delle imprese industriali: il 21% collabora con istituti tecnici superiori e il 16% con le ITS Academy, percorsi questi ultimi su cui il sistema confindustriale ha investito molto in virtù degli alti tassi di occupabilità garantiti.
“Resta invece un margine di miglioramento nei rapporti con le università, fondamentale per raccontare più efficacemente la realtà industriale alle nuove generazioni”, spiega Giovanna Labartino, Senior Economist Centro Studi di Confindustria.

Adozione e ambiti applicativi: ancora poche imprese usano l’AI per accelerare il processo innovativo
Focalizzando l’attenzione sulla specifica integrazione dell’intelligenza artificiale nei processi aziendali, i dati restituiscono una realtà a più velocità.
Attualmente, solo l’11,5% delle imprese utilizza attivamente l’AI, mentre il 37,6% è in fase di valutazione con progetti pilota. A preoccupare è il fatto che circa la metà del campione non preveda alcun utilizzo nel breve termine.
Tra chi ha adottato la tecnologia, l’applicazione prevalente riguarda l’analisi e la gestione dei dati (quasi il 50%) e il marketing (un’impresa su tre), mentre l’uso in ricerca e sviluppo si ferma al 28,7%, un dato giudicato inferiore alle potenzialità.

L’impatto sull’organico e la risposta delle imprese
Sul fronte della gestione delle risorse umane, la risposta alla carenza di profili specializzati è pragmatica: il 72% delle aziende punta sulla formazione interna, mentre solo il 10% ricorre all’assunzione di nuovi esperti, confermando la difficoltà di reperimento sul mercato.
Le criticità maggiori restano legate proprio alla mancanza di competenze interne (segnalata da un’impresa su tre), seguita da costi elevati e complessità tecnica.
Per quanto riguarda l’impatto sulla forza lavoro l’indagine ridimensiona drasticamente i timori legati all’effetto sostituzione: a fronte di una visibile automazione delle attività ripetitive, l’82,8% delle imprese dichiara di non prevedere riduzioni del personale.
Solo il 2,2% ha riscontrato un calo effettivo degli organici e appena il 15% lo ipotizza come scenario futuro, suggerendo che la vera sfida non sia la difesa dei posti di lavoro, ma la piena comprensione delle opportunità ancora inesplorate di questa tecnologia.

Il punto di vista delle imprese: il nodo della produttività e la variabile normativa
Il confronto con le rappresentanze industriali aperto da Carlo Riccini, Direttore Generale di Farmindustria, sposta l’attenzione dal mero dato statistico alla strategia di politica industriale.
Per un settore come quello farmaceutico, strutturalmente più avanzato nell’adozione tecnologica e nella ricerca di competenze manageriali oltre che tecniche, la priorità è scongiurare il rischio di un nuovo paradosso della produttività (paradosso di Solow).
Questo fenomeno, celebre negli anni ’80 con l’introduzione dei computer, si verifica quando ingenti investimenti in nuove tecnologie non si traducono in un aumento misurabile delle statistiche aggregate di produttività.
Il pericolo, secondo Riccini, è che anche l’AI venga utilizzata dalle imprese solo per velocizzare processi già esistenti (come l’automazione delle attività ripetitive) senza stimolare un ripensamento strutturale dei modelli di business, perdendo così l’opportunità di generare il valore aggiunto necessario a livello macroeconomico.
Oltre a evitare questa stagnazione produttiva, emerge con forza l’urgenza di affrontare il mismatch regolatorio: la vera partita non si gioca tanto sulla capacità dell’AI di creare o distruggere lavoro, quanto sul “dove” questo avverrà, richiedendo un quadro normativo che garantisca la competitività europea rispetto ad altri player globali.
Demografia e “terziarizzazione” del manifatturiero
Dal punto di vista territoriale, la testimonianza di Paolo Piantoni, direttore generale di Confindustria Bergamo, ribalta la narrazione “difensiva” sull’occupazione.
“In un distretto manifatturiero prossimo alla piena occupazione, ma che proietta al 2050 un calo della forza lavoro del 13% e della componente giovanile del 26%, l’automazione non è una minaccia ma una necessità vitale per mantenere i livelli di valore aggiunto”, spiega.
Tuttavia, il tessuto produttivo mostra una frattura dimensionale: mentre le grandi imprese accelerano, le PMI faticano a decifrare il contesto e ad attrarre talenti, frenate anche da una resistenza culturale che rischia di polarizzare la forza lavoro tra “adottatori” ed esclusi.
La risposta del sistema confindustriale passa per una rivalutazione strategica del terziario avanzato: un manifatturiero competitivo necessita oggi di un ecosistema di servizi ad alto valore aggiunto e di consulenza qualificata, che le associazioni devono mappare e veicolare massivamente verso le piccole imprese, superando la logica dei progetti pilota per puntare ai grandi numeri.
La metamorfosi della formazione: selettività, soft skills e il nodo dimensionale
Per colmare il divario di competenze non basta più immettere risorse nel sistema, occorre cambiarne radicalmente la destinazione d’uso. È questa la sintesi che emerge dal confronto tra gli operatori della formazione professionale, concordi nel ritenere superata la fase della semplice alfabetizzazione.
Raffaella Caprioglio di Umana smonta il mito dell’“esperto di AI” come figura salvifica: “Le aziende non cercano unicorni tecnologici, ma professionisti capaci di applicare l’innovazione al proprio mestiere specifico”, spiega.
La risposta di Umana – che ha erogato 387.700 ore di formazione nell’ultimo anno – punta tutto sull’ibridazione: moduli tecnici integrati con un forte accento sulle soft skills, dove la competenza regina diventa l’“allenamento al dubbio”, indispensabile per navigare un contesto informativo sempre più inquinato e mutevole.
Questa esigenza di qualità impone un cambio di rotta nella gestione dei Fondi Interprofessionali, che movimentano risorse ingenti (lo 0,30% vale quasi un miliardo di euro).
La nuova dottrina di Fondimpresa è basata su una selettività quasi chirurgica: l’avviso sperimentale da 5 milioni sull’AI segna uno spartiacque perché esclude deliberatamente il finanziamento del prompt engineering – considerato ormai una commodity o un’abilità personale – per concentrare il supporto esclusivamente su progetti che generino un reale avanzamento nei prodotti o nei processi industriali”, spiega Elvio Mauri, Direttore Generale di Fondimpresa.
Un rigore necessario, sottolinea Mauri, anche alla luce di un dato finanziario allarmante che funge da proxy della competitività: il versamento medio delle aziende è salito da 72 euro (2017) a 103 euro, segnale che “solo chi scala dimensionalmente riesce a creare ricchezza, mentre la micro-impresa rischia l’irrilevanza”.
Sulla stessa linea si muove Fondirigenti, il cui osservatorio restituisce un paradosso solo apparente: l’invasione tecnologica ha fatto esplodere il bisogno di competenze umanistiche e strategiche.
“Le ore di formazione su leadership e gestione delle persone sono raddoppiate (da 31.000 a 68.000), mentre calano quelle tecniche tradizionali”, spiega Massimo Sabatini, Direttore Generale di Fondirigenti.
La strategia del Fondo è quindi usare l’AI come “leva abilitante” all’interno di avvisi mirati come Generazioni Digitali e Metamorfosi Imprenditoriali, progettati per governare snodi critici quali la convivenza intergenerazionale in azienda o l’apertura del capitale.
Tuttavia, resta irrisolto il nodo dello stallo formativo delle piccole imprese: mentre i dati mostrano una crescita della formazione nelle grandi e medie realtà, la curva delle piccole è piatta.
Un segnale preoccupante che suggerisce come la narrazione del “piccolo è bello” stia cedendo il passo a una realtà dove, senza massa critica e struttura manageriale, l’accesso alla formazione strategica diventa una chimera.
Di Stefano: “L’AI abilita il potenziale umano, la vera sfida è su soft skills e Open Innovation“
Nelle conclusioni dell’evento, Riccardo Di Stefano, Delegato del Presidente di Confindustria per l’Education e l’Open Innovation, ha riaffermato che l’intelligenza artificiale non deve essere vista come una semplice evoluzione tecnologica, ma come un “cambiamento di paradigma”, un processo impattante assimilabile storicamente a una General Purpose Technology (GPT) come l’elettricità o la stampa. Fugando i timori legati alla sostituzione massiva di manodopera, Di Stefano ha sottolineato che l’IA è un “abilitatore” che mette le persone nelle condizioni di lavorare meglio e con maggiore creatività. A riprova, l’indagine ha mostrato che solo il 2,2% delle aziende ha riscontrato una diminuzione della forza lavoro in seguito all’automazione di funzioni ripetitive.
Per far sì che l’Italia superi i suoi ritardi strutturali—come la mancanza di big player, la ridotta percentuale di servizi ad alto valore aggiunto e la difficoltà di investimento delle PMI—la partita si gioca in via definitiva sulla qualità e sulla diffusione delle competenze,,. Di Stefano ha evidenziato che l’urgenza di colmare l’attuale gap di alfabetizzazione digitale impone un cambio di prospettiva sui profili professionali richiesti: “Le soft skills o le skills trasversali, il pensiero critico, la creatività… sono prepotentemente tornata alla ribalta”, ha detto.
Questo spostamento verso le competenze umanistiche e strategiche è fondamentale, poiché l’IA sta già superando l’esigenza del classico programmatore di codice, rendendo i lavoratori più capaci di gestire i processi e prendere decisioni.
Per sostenere questa transizione e favorire l’Open Innovation, Confindustria concentra il proprio sforzo su quelli che Di Stefano definisce “tre grandi contenitori e formatori di competenze”: la scuola, l’università e gli ITS. In questo quadro, il sostegno alla riforma del 4+2 per l’istruzione è un elemento chiave, volto a trasmettere precocemente ai ragazzi “il valore del lavoro, il valore dell’impresa”.












