Da circa un mese i giornali occidentali non parlano d’altro, quando si occupano di robot e automazione: il “caso Foxconn”, l’azienda cinese salita più volte alla ribalta della cronaca per essere uno dei principali fornitori della Apple.
Ma che cosa è successo alla Foxconn? A fine maggio Xu Yulian, esponente governativo per l’area di Kunshan, nella provincia dello Jiangsu, a poca distanza da Shanghai – uno dei principali hub cinesi per la produzione elettronica – ha reso noto che l’azienda ha ridotto la forza lavoro in una delle sue fabbriche passando da 110 mila a 50 mila unità “grazie all’introduzione dei robot“. Come se non bastasse, Xu Yulian ha aggiunto che altre società faranno a breve lo stesso. Molte altre, considerato che in quell’area ci sono circa 600 imprese comparabili per tipologia di lavorazione e dimensione alla fabbrica Foxconn.
Fin qui i fatti che hanno dato adito alla pletora di articoli sui robot che rubano lavoro agli uomini e sul futuro oscuro che aspetta la derelitta umanità. Ora del rapporto tra uomo e robot l’umanità si occupa sin da quando i robot nemmeno esistevano. È un’attrazione – quella verso l’altro da sé, il Pinocchio che cresce fino a rubare la pagnotta a Geppetto – alla quale l’uomo non sa resistere, espressione di una paura ancestrale che potremmo tranquillamente assimilare a quella che i nostri antenati nutrivano per il fuoco. Una paura – si noti bene – che non è del tutto priva di fondamento: meccanizzazione, informatizzazione e automazione (più in generale sarebbe corretto parlare di “tecnologia”) hanno effettivamente sostituito nel corso del tempo la forza lavoro umana.
Le cose si complicano un po’ se però si esamina la questione da un punto di vista diverso: cosa saremmo oggi se NON avessimo avuto l’innovazione tecnologica? Se nel breve termine non avessimo dovuto soffrire disoccupazione e sofferenza? È davvero grave che non servano più milioni di schiavi per lavorare le cave di marmo? E domani sarà davvero grave che siano i robot a occuparsi di saldature, assemblaggi e altre operazioni ripetitive per costruire device elettronici?
In un’intervista alla BBC, un esponente Foxconn ha dichiarato: “Stiamo utilizzando robot e altre tecnologie produttive nelle operazioni ripetitive e stiamo formando il nostro personale per consentirgli una maggiore focalizzazione su elementi a maggiore valore aggiunto lungo il processo produttivo, dalla ricerca e sviluppo al controllo di processo fino al controllo di qualità […]. Continueremo a sfruttare automazione e manodopera nei nostri sistemi produttivi e ci aspettiamo di mantenere sostanzialmente inalterato il livello di occupazione nelle nostre fabbriche in Cina”.
Tutto è bene quel che finisce bene? Difficile dirlo. La storia insegna che con il progresso tecnologico l’uomo ha saputo sfruttare le risorse liberate per rivolgerle ad attività a maggior valore aggiunto. Non senza però passare per momenti di grandissima crisi.
Kunshan è in crisi (è cresciuta meno del 3% nel 2014) e le aziende cercano legittimamente soluzioni per ridurre costi e rischi. Secondo Ed Rensi, ex CEO di una nota catena americana di fast food, un piccolo aumento orario dei salari porterebbe le aziende del settore a prendere in considerazione l’adozione di robot per friggere le patatine.
Quello che occorre insomma è che, come è accaduto in passato, la società imbocchi una nuova strada, adotti un nuovo “social business model” in cui le 60 mila persone (che presto saranno centinaia di migliaia nella sola Kunshan e milioni in Cina) che hanno perso il lavoro ne trovino un altro, possibilmente migliore, meno ripetitivo e pericoloso. Che invece di mettersi di traverso, si pensi a dei modelli di sviluppo alternativi. Che un processo come quello avviato non sia dettato unicamente da criteri economici ma, in parte, guidato.
La paura è lecita, ma la storia dice che ce l’abbiamo sempre fatta.