- Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy ha reso disponibili i modelli necessari per la certificazione facoltativa delle attività di ricerca, sviluppo e innovazione.
- Le imprese hanno due vie d’uscita dall’incertezza legata agli incentivi per le attività di ricerca e sviluppo: una certificazione volontaria che le protegge da contestazioni tributarie e una sanatoria (riversamento spontaneo) per chi vuole restituire i benefici senza conseguenze penali, con una finestra estesa fino al 31 ottobre 2024.
- Rimangono da chiarire alcuni aspetti, come le differenze di trattamento tra la disciplina pre-2019 e quella attuale, i conflitti di interesse dei certificatori e le specifiche sui rapporti di lavoro dei responsabili tecnici. Le attese linee guida, che dovrebbero essere pubblicate a breve, sono cruciali per risolvere questi dubbi.
Dopo l’apertura dell’Albo, con il decreto direttoriale firmato il 5 giugno da Paolo Casalino, Direttore Generale per la politica industriale, la riconversione e la crisi industriale, l’innovazione, le PMI e il Made in Italy, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy rende disponibili i modelli necessari per effettuare la certificazione facoltativa per le attività di ricerca, sviluppo e innovazione.
Con la pubblicazione di questo decreto mancano all’appello “soltanto” le attesissime linee guida, che avrebbero dovuto essere pubblicate lo scorso 31 dicembre 2023 e attese ormai a giorni. Linee guida che sono chiamate a dissipare alcuni sostanziali dubbi ancora presenti sulla disciplina.
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Certificazione e sanatoria, due vie d’uscita da un’impasse pluriennale
Prima di entrare nel merito, ricordiamo che gli incentivi per le attività di ricerca e sviluppo sono stati introdotti dal Decreto legge n. 145/2013 e poi significativamente modificati dalla legge di bilancio per il 2020 (legge n. 160/2019), quella per intenderci che istituiva il piano Transizione 4.0. Il cambio di regime avvenuto nel 2020 è rilevante non soltanto per le diverse modalità di calcolo dell’incentivo, con il passaggio dal premio sul valore incrementale a un premio “assoluto”, l’introduzione dell’incentivo anche per le attività di innovazione, aliquote riviste e una diversa modalità di calcolo delle attività agevolate; ma anche perché quella data fa da spartiacque tra un sistema nato con certi presupposti – e soprattutto prima ancora della pubblicazione dei famigerati manuali di Oslo e Frascati – a un altro basato su nuove regole.
La fruizione di questo incentivo è stata oggetto di parecchie “attenzioni” da parte dell’Agenzia delle Entrate, che hanno spesso contestato alle imprese addirittura l’ipotesi del credito inesistente, con gravi ripercussioni sul piano societario e penale. Considerata la complessità della materia, i tanti errori in buona fede e non, le verifiche svolte da personale senza competenze specifiche, i giudici tributari hanno dato spesso ragione alle imprese. Ciò non toglie che un’alea di incertezza pesa ancora oggi su chi in passato ha scelto di avvalersi di queste agevolazioni.
Di qui la decisione del Governo di offrire alle imprese due vie di uscita. La prima è la certificazione (volontaria e non obbligatoria) delle attività svolte, che serve appunto a metterle al riparo da ogni possibile contestazione tributaria. La seconda, a questa evidentemente complementare, è quella del riversamento spontaneo (una sanatoria de facto), finestra recentemente estesa fino al 31 ottobre 2024.
La logica di sistema di queste due soluzioni è che l’azienda sottoponga a verifica le sue attività. In caso di certificazione, può dormire finalmente sonni tranquilli. Laddove invece dall’analisi dei tecnici emergessero criticità, può optare per la restituzione del beneficio, chiudendo comunque la partita.
Come è fatto il modello
La prima parte del modello è dedicata alle informazioni di base del certificatore, che può essere un professionista, un’impresa di consulenza privata o un soggetto pubblico come università ed enti. Qui vengono inserite anche le informazioni relative all’impresa investitrice. I certificatori devono quindi descrivere le capacità organizzative e le competenze tecniche dell’azienda richiedente la certificazione, fornendo dati quantitativi e qualitativi che attestano la propensione alla ricerca della società. Questi dati includono, tra gli altri, fatturato, spese di ricerca sostenute, numero di dipendenti e addetti coinvolti nella ricerca.
Nella seconda sezione, il modello richiede una descrizione dettagliata del progetto o del sottoprogetto realizzato, in corso di realizzazione o da iniziare. Questa descrizione deve includere il settore e l’ambito del progetto, l’individuazione del problema da risolvere, la definizione degli obiettivi e i risultati attesi o conseguiti, oltre a dettagli sul gruppo di lavoro impiegato e sulle attività e fasi del progetto.
La terza sezione del modello è dedicata a ulteriori informazioni e altri elementi quantitativi. Qui devono essere riportate le spese del progetto, suddivise per periodo (dal 2015 al 2027), e gli importi dei crediti d’imposta maturati o da maturare. Le spese ammissibili sono dettagliate per tipologia e per anno di imposta, e devono essere coerentemente riportate nel quadro RU della dichiarazione dei redditi.
L’ultima sezione riguarda le motivazioni tecniche sulla base delle quali viene attestata la sussistenza dei requisiti per l’ammissibilità al beneficio del credito d’imposta. Questa parte è suddivisa per tipologia di credito e richiede la sistematizzazione delle caratteristiche di ciascun credito d’imposta, come la sistematicità, l’incertezza, la creatività, la novità, l’applicabilità, la trasferibilità e la riproducibilità.
Gli allegati al modello includono schede distinte per attività: ricerca fondamentale, ricerca industriale e sviluppo sperimentale, innovazione tecnologica, innovazione tecnologica 4.0 e green, design e ideazione estetica. Per ciascuna di queste attività, sono presenti schede da compilare sulle spese ammissibili ripartite per tipologia e per anno di imposta.
I punti da chiarire
Tra i principali punti da chiarire c’è sicuramente l’eventuale differenza di “trattamento” tra la disciplina applicata fino al 2019 e il regime attualmente in vigore, in particolar modo con riferimento all’applicazione delle regole disposte dal Manuale di Frascati e dal Manuale di Oslo. La speranza è che le linee guida specifichino una volta per tutte che l’applicazione dei criteri definiti in quella documentazione si applichi solo alla nuova disciplina.
Un altro punto delicato è relativo ai conflitti di interesse del certificatore, che è obbligato a dichiarare di non trovarsi in situazioni di conflitto di interesse. In particolare, non deve avere “apporti diretti o indiretti di partecipazione
o cointeressenza nell’impresa richiedente la certificazione o comunque altri interessi economici ricollegabili agli investimenti nelle attività oggetto di certificazione o al soggetto che sottoscrive la relazione tecnica asseverata”: aver citato genericamente “altri interessi economici” rende chiaramente poco definito l’ambito delle esclusioni.
Il Decreto, infine, richiede che il responsabile tecnico che si occupa della certificazione deve essere inserito stabilmente nell’impresa di consulenza, università o altro ente, che ha assunto l’incarico della certificazione, con un “rapporto di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 2094 c.c., di lavoro eterorganizzato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 81/2015, di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 c.p.c.”. Sul punto non è chiaro se sia lecito che il soggetto certificatore si avvalga dell’opera di un responsabile tecnico ad essa legato da un rapporto sui generis, come quello, particolarmente diffuso nel settore, di collaborazione consulenziale.