L’OPINIONE

L’industria al bivio dell’IA: dal dire al fare, passando per Platone e Dostoevskij



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L’avvento dell’IA generativa è una trasformazione culturale che costringe l’industria a ripensare l’interazione uomo-macchina. Piuttosto che sostituire i sistemi esistenti, i chatbot si propongono come interfacce conversazionali universali, con un’evoluzione che sposta il valore dalle sole competenze tecniche – le hard skills – alla capacità di formulare domande precise. Si rivaluta così la formazione umanistica come strumento strategico per i professionisti del futuro. L’opinione di Luca Mari, professore alla LIUC di Castellanza.

Pubblicato il 23 giu 2025



Luca Mari



Da meno di due anni (anche se sembra un’eternità) i grandi modelli linguistici (LLM), comunemente etichettati come intelligenza artificiale generativa, hanno dimostrato di essere degli strumenti capaci di dialogare con una raffinatezza che pochi avrebbero previsto. A ben pensarci, l’avvento della Gen AI non rappresenta soltanto un’evoluzione degli strumenti di calcolo o di automazione. È un “evento” che incide direttamente sulla cultura, costringendo a riconsiderare una delle caratteristiche che fino a ieri si riteneva distintiva dell’essere umano: la padronanza della parola. Se oggi esistono “dei cosi che parlano”, come li definisce provocatoriamente Luca Mari, professore alla LIUC di Castellanza e studioso dei rapporti tra tecnologia e pensiero, allora la domanda sul ruolo dell’uomo, e in particolare del professionista tecnico, diventa ineludibile.

L’impatto di questa trasformazione sul mondo industriale è profondo e ancora largamente inesplorato. Superata l’iniziale sorpresa, le aziende si trovano a interrogarsi su come integrare questi sistemi nei processi di progettazione, produzione e gestione. La risposta, suggerisce Mari, potrebbe non trovarsi in un’accelerazione tecnologica fine a se stessa, ma in un cambiamento di paradigma che sposta l’attenzione dalla mera esecuzione al dialogo, dalla programmazione alla conversazione. Una transizione che, paradossalmente, trova un suo precedente quasi 2500 anni fa, nel modo in cui Platone analizzò il passaggio dalla cultura orale a quella basata sulla scrittura.

Una questione di dialogo, non solo di calcolo

Per diversi anni l’intelligenza artificiale applicata all’industria ha seguito un percorso lineare: codificare la conoscenza umana in regole precise che una macchina potesse eseguire. I cosiddetti “sistemi esperti” funzionavano a patto che il problema fosse interamente noto e descrivibile. Tuttavia questo approccio si è scontrato con la sua intrinseca rigidità. Molti problemi complessi, come ottimizzare una catena di montaggio in tempo reale o diagnosticare un guasto imprevisto, non si basano su algoritmi noti. La vera conoscenza aziendale è spesso tacita, diffusa e multidimensionale.

L’intelligenza artificiale odierna, basata sul machine learning, ha ribaltato la prospettiva. Non si forniscono più alla macchina le regole per risolvere un problema, ma le si dà la capacità di imparare a risolverlo analizzando enormi quantità di dati. È esattamente questo il salto che ha permesso la nascita dei chatbot con cui interagiamo. Non esiste un “algoritmo del dialogo”; la loro abilità emerge dall’addestramento. Per la prima volta, la macchina non è più solo un esecutore ma un interlocutore.

Platone, nel Fedro, esprimeva la sua preoccupazione per la scrittura, una tecnologia che temeva potesse atrofizzare la memoria e creare un sapere apparente. La scrittura, a differenza del dialogo socratico, non poteva rispondere alle domande, non poteva difendersi. I sistemi di IA generativa, invece, introducono una sorta di “scrittura attiva”, capace di interagire e argomentare. Questa nuova facoltà apre scenari inediti per il trasferimento della conoscenza e per l’interazione uomo-macchina all’interno della fabbrica.

La fabbrica che impara a conversare

Nonostante le potenzialità, l’adozione dell’IA generativa nel manifatturiero incontra ostacoli significativi, come evidenziato anche da recenti analisi del MIT. Il principale è la scarsità di dati di addestramento qualificati e accessibili. La conoscenza industriale è protetta, frammentata in disegni tecnici, manuali, codice e conversazioni verbali. Come addestrare un modello su un patrimonio così eterogeneo e gelosamente custodito?

La visione che sta prendendo forma suggerisce un utilizzo diverso di questi strumenti, riassunto nell’espressione “dal dire al fare”. Anziché tentare di riversare l’intero sapere aziendale in un unico grande modello onnisciente, si profila l’idea di usare i chatbot come interfacce universali in linguaggio naturale. In questo scenario, l’IA generativa non sostituisce i solidi e affidabili software tradizionali (CAD, ERP, MES), ma diventa il loro volto conversazionale.

Un operatore potrebbe chiedere in italiano al sistema di configurare un ordine di produzione complesso. Il chatbot, agendo come un “agente” intelligente, tradurrebbe la conversazione in una serie di comandi, compilando i form e attivando i processi sui sistemi gestionali esistenti. Questo modello offre enormi vantaggi. Rende accessibili software complessi senza la necessità di una formazione specifica sull’interfaccia. Inoltre aggira uno dei problemi più sentiti del machine learning: la non spiegabilità. Se l’IA è solo il “traduttore” e dietro di essa operano sistemi tradizionali e verificabili, il controllo sul processo rimane saldo. La decisione finale non è delegata a un algoritmo opaco, ma resta governata da una logica conosciuta e validata.

L’ingegnere del futuro? Un umanista che sa programmare

Questa evoluzione tecnologica impone anche una riflessione sulle competenze. Se l’accesso agli strumenti tecnici più sofisticati viene mediato da un’interfaccia linguistica, la capacità di programmare in un linguaggio specifico potrebbe diventare meno distintiva della capacità di formulare una domanda in modo chiaro, preciso e non ambiguo. La qualità dell’output di un’IA generativa dipende in modo diretto dalla qualità dell’input.

Ecco che il cerchio si chiude, tornando all’importanza di una formazione che integri pensiero tecnico e padronanza umanistica. L’ingegnere o il progettista del futuro non sarà semplicemente colui che sa “fare”, ma colui che sa “chiedere”. La precisione del linguaggio, la capacità di strutturare un pensiero complesso e di dialogare con la macchina per esplorare soluzioni diventano abilità primarie. In questo senso, lo studio dei classici, l’esercizio della logica e della retorica, smettono di essere un vezzo intellettuale e si trasformano in un concreto strumento di lavoro.

Dostoevskij, altro riferimento culturale citato da Mari, ci ricorda che la responsabilità morale è una prerogativa inalienabile dell’uomo. Non si può punire una macchina, non le si può comminare una multa. La responsabilità di un errore ricade sempre e comunque sulla persona o sull’organizzazione che ha scelto di usare quello strumento. In un contesto industriale, questa non è una questione astratta, ma definisce i contorni della governance aziendale, della conformità normativa e della sicurezza. L’adozione di questi “superpoteri” digitali non riduce il peso della responsabilità umana, al contrario lo amplifica, richiedendo una consapevolezza e una capacità di giudizio ancora maggiori. La sfida, dunque, non è tanto tecnologica quanto umana.

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