Robotica, intelligenza artificiale e occupazione, un dibattito stretto tra tecnofobia e necessità di cambiamento

Nell’era della quarta rivoluzione industriale il rapporto tra tecnologia e lavoro è ancora vissuto in modo fortemente polarizzante, con i “tecnofili” e “tecnofobi” trincerati dietro posizioni spesso preconcette. In questo articolo riportiamo numeri, studi e analisi oltre a una riflessione, in compagnia di diversi esperti, su come cambieranno le professioni nel futuro e di cosa c’è bisogno per guidare le trasformazioni in atto.

Pubblicato il 10 Giu 2021

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Il rapporto tra tecnologia – automazione, robotica e intelligenza artificiale – e occupazione è ancora oggi vissuto in maniera fortemente divisiva. Il dibattito ha origini lontane nel tempo: il primo e celebre tecnofobo fu Ned Ludd, l’operaio che, alla fine del XVIII secolo, in preda a uno scatto di rabbia, distrusse un telaio meccanico (per questo i detrattori  delle tecnologie prendono anche il nome di luddisti).

Nel corso degli anni sono stati condotti diversi studi a sostegno della tesi che a un maggiore impiego dell’automazione segue un aumento dell’occupazione, ma sono presenti anche studi che evidenziano l’opposto.

Nell’era della quarta rivoluzione industriale il tema non potrebbe essere più attuale. Ma ha ancora senso avere paura che robot e algoritmi ci rubino il lavoro? Quali sono le politiche attive e le azioni che devono essere intraprese per far sì che l’effetto sostituzione che si verifica in seguito all’automazione di alcune professioni e/0 task non porti alla perdita di posti di lavoro?

Questi i temi al centro dell’evento “Tecnologia e occupazione, perché robot e AI (non) ci ruberanno il lavoro”, organizzato da Innovation Post all’interno degli appuntamenti del palinsesto della 360ON TV.

Il ruolo della robotica e dell’AI nella manifattura e i numeri in Italia

L’impatto delle tecnologie avanzate – Digitale in primis – sui sistemi di produzione è sempre maggiore, anche a seguito dell’accelerazione data dalla pandemia: una recente analisi di Google Cloud ha evidenziato che il 71% delle aziende manifatturiere (dato globale) ha fatto ricorso durante la pandemia a tecnologie disruptive, come l’intelligenza artificiale. Percentuale che sale all’81% nel caso delle aziende manifatturiere italiane.

Anche nella robotica, il nostro Paese ha una posizione di tutto rispetto a livello mondiale: secondo i dati ufficiali dell’International Federation of Robotics relativi al 2019 (quelli sul 2020 saranno presentati a settembre), l’Italia  è il sesto utilizzatore mondiale di robot industriali, con 74.420 unità installate (+8% rispetto al 2018).

Il mercato non è rimasto immune agli effetti della pandemia: i dati del 2020 resi noti dall’Associazione Italiana di Robotica Industriale parlano infatti di un calo dei consumi del 14,2% (inferiore quindi rispetto a quello registrato da altri settori), a cui si è accompagnata una flessione del 20,1% nella produzione. Tuttavia sono numeri che arrivano dopo un triennio di crescita a doppia cifra. E le previsioni per il 2021 parlano di un recupero di consumi a doppia cifra, del +21,5%: secondo l’Associazione, nel 2021 i robot installati in Italia raggiungeranno le 9.455 unità, numero superiore ai valori pre-crisi (nel 2019 si erano registrate 9.070 unità) e a quelli record registrati nel 2018 (9.237 unità).

Non si tratterà soltanto di un’evoluzione di numeri, ma si espanderanno anche le aree di applicazione, come spiega Antonio Bicchi, Presidente i-RIM (Istituto Robotica e Macchine Intelligenti). “I robot e le macchine intelligenti stanno uscendo dal settore secondario e penetrano sempre di più nel primario, soprattutto agricoltura e produzione alimentare, e nei servizi, come nel trasporto, magazzinaggio e nella sanità”, commenta.

Questo si rende possibile grazie a una sempre maggiore integrazione tra la robotica e l’intelligenza artificiale. Due tecnologie che sono strettamente connesse, spiega Bicchi, che definisce la robotica come “l’intelligenza artificiale applicata al mondo fisico”.

A fronte dei notevoli risultati del mercato della robotica italiano, i numeri relativi all’intelligenza artificiale descrivono invece un mercato relativamente piccolo, di un valore complessivo di “soli” 300 milioni di euro. “Va specificato che abbiamo una definizione di intelligenza artificiale molto restrittiva, perché tendiamo ad escludere tutte quelle applicazioni che diventano immediatamente commodity, quindi stiamo guardando a quello che è correntemente la frontiera della ricerca e dell’applicazione”, spiega Giovanni Miragliotta, Direttore dell’Osservatorio sull’intelligenza artificiale del Politecnico di Milano.

Oltre a questo, il mercato è ancora largamente predominato dai servizi finanziari (settore bancario, assicurativo, l’energetico utility). Componenti che insieme costituiscono oltre il 50% del valore complessivo, mentre il manifatturiero, nonostante i dati descritti dall’analisi di Google Cloud sopra citata, vale ancora solo il 13-15% del mercato.

I robot rubano davvero il lavoro?

Un mercato, insomma, che deve ancora dare il suo contributo. A fronte di questo, l’AI e la robotica si sono già mostrati in grado di risolvere problemi che le tecnologie tradizionali non si sono dimostrate in grado di affrontare, come le sfide di flessibilità e continuità delle operazioni, ma anche quelli legati alla sicurezza dei lavoratori.

Si pensi ad esempio ai disturbi muscolo-scheletrici, tra le malattie professionali più diffuse in Italia. Il recente studio “Stop worrying and love the robot: An activity-based approach to assess the impact of robotization on employment dynamics” – realizzato dai ricercatori dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP), dell’Università di Trento e dell’Istituto di Statistica della Provincia di Trento (ISPAT) – ha rilevato che nelle aziende dove viene introdotta la robotica si verifica una riduzione delle task che richiedono sforzi fisici.

A fronte di ciò, non è stata riscontrata una contrazione di tutte le operazioni considerate di routine e ripetitive, come spiega Sergio Scicchitano, economista, ricercatore INAPP. “Il cosiddetto effetto sostituzione, dove le ‘macchine’ prendono il posto dell’operatore non si è verificato universalmente per tutte queste operazioni di routine, come si potrebbe pensare. Infatti, è stato riscontrato per quelle più logoranti fisicamente, ma non per quelle a carattere cognitivo”.

Lo studio, ha analizzato l’effetto della robotica sull’occupazione, distinguendo tra attività complementari ai robot e quelle dove il lavoratore rischierebbe di essere sostituito da esse. Un’indagine che si è avvalsa dei dati, molto approfonditi, in possesso dell’INAPP su tutte le 800 professioni presenti nel nostro Pese. A partire da questi dati, si è indagato l’effetto dell’introduzione della robotica nelle aziende su due categorie di lavoratori: gli operatori dei robot, ovvero i lavoratori coinvolti nella progettazione, istallazione e manutenzione dei robot, e quelli più esposti ai robot.

I risultati hanno evidenziato come proprio le categorie potenzialmente esposte al rischio non hanno risentito dell’introduzione dei robot, mentre il numero dei posti di lavoro destinati agli addetti dei robot sono aumentati del 50% in poco meno di dieci anni, soprattutto in quelle aree che hanno utilizzato i robot industriali.

I ricercatori sono quindi giunti alla conclusione che l’adozione della robotica nelle aziende italiane nel periodo 2011-2018 non abbia portato a un aumento della disoccupazione. Al contrario, seppur in maniera ridotta, ha avuto l’effetto opposto. “Troviamo che a un’aumento dell’1% nell’utilizzo della robotica corrisponda un aumento dello 0,29% nella quota locale di operatori dei robot”.

Un fenomeno che prende il nome di “reinstatement effect”: più si investe nella robotica il numero dei lavoratori che svolgono attività complementari cresce a sua volta.

Un effetto di cui aveva parlato anche il World Economic Forum, che nelle sue previsioni del 2018 ha stimato che entro il 2025 a metà dei lavori attuali sarà svolta dai robot, con una perdita di 75 milioni di posti di lavoro. Allo stesso tempo, però, i robot creeranno 133 milioni di posti di lavoro più specializzati, con un saldo di 58 milioni di nuovi posti di lavoro creati.

“L’automazione uccide i lavori meno specializzati, quelli che l’uomo non vuole più fare o che non avrebbe mai voluto fare”, spiega Domenico Appendino. Per beneficiare di questo “reinstatement effect”, tuttavia, occorre fornire alla forza lavoro le competenze necessarie a svolgere queste mansioni e queste professioni più specializzate.

Ma allora, da dove nasce la preoccupazione che i robot rubino il lavoro alle persone? “Questa demonizzazione della robotica è nata nel momento in cui ancora non si erano verificati gli effetti di creazione dell’occupazione”, aggiunge Appendino.

Come già detto, ci sono tuttavia studi che evidenziano effetto opposto. Un caso esemplare è lo studio “Competing with Robots: Firm-Level Evidence from France” ad opera dei ricercatori ed economisti  Acemoglu, Lelarge e Restrepo (pubblicato nel maggio 2020), che analizza il caso specifico francese.

“Occorre valutare il contesto – precisa Appendino – in Francia soltanto l’1% delle imprese ha adottato la robotica. Queste, tuttavia, impiegano circa il 20% della forza lavoro”, spiega.

Una situazione ben diversa da quella italiana, dove il tessuto imprenditoriale è caratterizzato da micro, piccole e medie imprese. Gli studi, quindi, devono tener conto che l’effetto dell’automazione sul lavoro varia anche da Paese in Paese, a seconda anche della struttura produttiva.

Ma non solo: ad alimentare la tecnofobia, che nel nostro Paese è ampiamente diffusa, ci sarebbe un difetto nella modalità di condurre queste indagini. Lo sostiene Marco Bentivogli, coordinatore Base Italia e autore di diversi libri sul tema, tra cui Contrordine compagni. Manuale di resistenza alla tecnofobia per la riscossa del lavoro e dell’Italia” (pubblicato nel marzo del 2019). 

“Purtroppo i dati vengono spesso utilizzati male, si seguono le evoluzioni delle mansioni e dei lavori nel tempo, ma è ovvio che i lavori nel tempo cambiano. Un esempio è quello del tornitore, una figura che oggi svolge un ruolo ben diverso da quello che svolgeva negli  ’70 . Ed ecco che i numeri si perdono”, spiega.

La letteratura, tuttavia, è ben lontana dal dare risposte definitive sul tema.

Perché in Italia non possiamo fare a meno dei robot e dell’AI

Una cosa però è chiara: dell’automazione il nostro Paese non può fare a meno, soprattutto alla luce dei cambiamenti che interesseranno la forza lavoro nei prossimi anni, sottolinea Miragliotta.

Uno studio condotto dall’Osservatorio del Politecnico di Milano sul tema della penetrazione delle tecnologie dell’AI sull’occupazione ha evidenziato che nel giro di prossimi 15 anni circa 3,6 milioni di posti di lavoro equivalenti verranno eliminati: alcune professioni scompariranno, alcune task verranno automatizzate e accorpate, portando alla scomparsa di altre professioni. Un processo di “ibridazione” descritto anche dallo studio predittivo realizzato da Manpower Group, Ernst & Young e Pearson sui trend che rivoluzioneranno il lavoro e le competenze rilevanti nel mercato.

“Nel giro dello stesso periodo l’invecchiamento popolazione, anche considerando un saldo migratorio positivo, farà sparire 1,5 milioni di lavoratori. Se vogliamo migliorare il nostro tenore di vita, come abbiamo fatto nello scorso decennio, dovremo generare un aumento della domanda di lavoro pari a 3,3 milioni di posti di lavoro equivalenti”, spiega Miragliotta.

L’automazione delle attività meno ripetitive offerte dall’intelligenza artificiale è quindi una necessità se non vogliamo regredire rispetto allo sviluppo di cui abbiamo beneficiato.

È, inoltre, uno strumento che può aiutare il processo di reshoring di molte attività che erano state decentrate in altri Paesi. Un fenomeno su cui la pandemia ha acceso ulteriormente i riflettori, mostrando il rischio della dipendenza delle catene di fornitura da componenti prodotti all’estero.

Per farlo, tuttavia, non occorrono solo le tecnologie. “Servono competenze, nuovi sistemi di organizzazione e, soprattutto, serve un territorio in grado di riaccogliere queste produzione, capace di attirare queste imprese”, precisa Bentivogli.

Le competenze che mancano e il bisogno di nuove politiche attive per il lavoro

Di competenze c’è un disperato bisogno non solo per riportare in patria delle produzioni, ma anche per la competitività e la sopravvivenza delle imprese che già operano nel nostro Paese. Imprese che da anni denunciano il problema del mismatch di competenze, ovvero della mancata congruenza tra le competenze in possesso della forza lavoro e quelle ricercate dalle imprese.

Problema che può comportare un serio freno alla ripresa dell’economia dopo la crisi provocata dal Covid-19: secondo una recente indagine condotta dal ManpowerGroup, in Italia il 7% delle imprese pianifica assunzioni per i prossimo mesi. A fronte di queste prospettive positive, il “talent shortage” (mancanza di talenti) ha raggiunto un tasso dell’85%. Il più alto in 15 anni.

“Dobbiamo essere pronti a intercettare i cambiamenti che caratterizzeranno il mercato del lavoro nel lungo periodo e dobbiamo esserlo ora. Abbiamo visto che l’automazione può avere effetti positivi per l’occupazione, ma non dobbiamo fare l’errore di pensare che questo sia scontato”, sottolinea Alessandro Longo, direttore di AgendaDigitale.eu.

Molto c’è da fare sulle politiche attive, i cui risultati sono ancora ad oggi deludenti, come ha sottolineato lo stesso Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in occasione della presentazione della Relazione annuale della Banca d’Itlia. In tale occasione il Governatore aveva portato l’attenzione sul fallimento dei Centri per l’impiego, che nel nostro Paese aiutano soltanto un disoccupato su dieci, mentre il numero è di sette su dieci in Germania.

Questa è una delle sfide che si troverà ad affrontare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). “Si dovrà essere in grado di investire in quelle politiche che funzionano, come l’alternanza scuola-lavoro, e non spendere ancora soldi su quelle che non producono risultati”, aggiunge Bentivogli.

Come cambieranno le professioni del futuro?

Politiche che occorrono per indirizzare quel processo di reskilling della forza lavoro e per guidare la formazione continua di cui ci sarà sempre un maggiore bisogno per far fronte ai cambiamenti che interesseranno nei prossimi anni le professioni.

Ma quali saranno questi cambiamenti? Quali le professioni che sono più a rischio? A tal proposito in economia si sono sviluppate due teorie: quella dello skill bias technical change, secondo cui il progresso tecnologico tende a spiazzare le skill a bassa specializzazione e quella del routine bias technical change, secondo cui il progresso riduce i lavori di routine. Fenomeno che, come abbiamo visto, ancora non è stato riscontrato nel nostro Paese.

Cambiamenti troppo difficili da prevedere, secondo Giovanni Miragliotta, poiché “non è detto che se una professione può essere svolta da una macchina allora sarà svolta dalla macchina”. Un discorso che sta prendendo sempre più piede soprattutto nella manifattura e che sta guidando l’evoluzione dell’Industria 4.0: l’uomo al centro del progresso di innovazione.

In questo scenario le “macchine” assumeranno un ruolo di potenziatore dell’uomo, lo aiuteranno a prendere decisioni più informate, sottolineandone le contraddizioni. Un processo che non può avvenire senza le giuste competenze.

Potete riguardare la puntata qui

Ecco il video della trasmissione, buona visione!

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Michelle Crisantemi

Giornalista bilingue laureata presso la Kingston University di Londra. Da sempre appassionata di politica internazionale, ho vissuto, lavorato e studiato in Spagna, Regno Unito e Belgio, dove ho avuto diverse esperienze nella gestione di redazioni multimediali e nella correzione di contenuti per il Web. Nel 2018 ho lavorato come addetta stampa presso il Parlamento europeo, occupandomi di diritti umani e affari esteri. Rientrata in Italia nel 2019, ora scrivo prevalentemente di tecnologia e innovazione.

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