Sindacati contro industriali: la lista delle attività produttive permesse scontenta tutti

Il DPCM 22 marzo, che ha fornito l’elenco delle attività produttive che possono rimanere aperte, sembra aver scontentato molti: da una parte i sindacati, che minacciano lo sciopero generale e chiedono di ridurre la lista; dall’altra gli industriali, alle prese con chiusure, calo del fatturato, problemi di interpretazione delle norme. L’intervista a Marco Nocivelli (Anima – Meccanica varia) e Massimo Carboniero (Ucimu – Sistemi per Produrre).

Pubblicato il 24 Mar 2020

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Il DPCM 22 marzo, con cui il Governo ha deciso di chiudere le attività produttive “che non siano strettamente necessarie, cruciali, indispensabili a garantirci beni e servizi essenziali”, ha generato non poche polemiche, sia per la distanza di tempo tra l’annuncio del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte (nella tarda serata di sabato 21 marzo) e la pubblicazione del decreto (nel pomeriggio di domenica), che per il contenuto.

Allegata al DPCM, infatti, è stata inserita una lista coi codici Ateco delle “attività essenziali” che possono continuare la produzione: si tratta di aziende del settore alimentare, agricoltura, settori della carta, della plastica, del vetro e della gomma, il farmaceutico, il chimico, l’industria tessile (escluso l’abbigliamento), i trasporti, la produzione di energia, la distribuzione dei servizi essenziali (acquedotti, raccolta e smaltimento dei rifiuti ecc.), ma anche le attività di manutenzione e riparazione di apparecchi, macchine e macchinari vari.

Una lista che, in qualche modo, sembra aver scontentato molti: dalle associazioni industriali che si sono viste escluse dall’elenco ai sindacati, per i quali invece sono ancora troppe le attività produttive non essenziali a cui è concesso di continuare la produzione.

NOTA BENE – Il giorno 25/3 Governo e Sindacati hanno concordato una revisione di questa tabella. Nell’articolo che vi linkiamo qui di seguito trovate tutti i dettagli

Produzioni essenziali, accordo tra sindacati e Governo: cambia la lista dei codici Ateco

I sindacati minacciano lo sciopero generale

Tra i più delusi dalle scelte del Governo Marco Bentivogli, Segretario Generale della Fim-Cisl. Il sindacato dei metalmeccanici ha già proclamato per mercoledì 25 marzo (assieme alla Uilm) uno sciopero di 8 ore in Lombardia e Lazio, chiedendo la chiusura delle produzioni non essenziali e delle aziende che non garantiscono la sicurezza dei lavoratori. Inoltre già lo scorso venerdì 20 marzo, Fim, Fiom e Uilm hanno prolungato fino al 29 marzo la copertura dello sciopero nelle aziende metalmeccaniche “al di fuori delle attività essenziali” e in quelle in cui ancora non si rispetta il Protocollo per la sicurezza dei lavoratori stilato in accordo con il Governo. Si tratta di scioperi “mirati” e non generali, proprio perché la strategia, come dichiara Bentivogli in un’intervista al quotidiano Avvenire, “è quella della mobilitazione e degli scioperi caso per caso, con intelligenza, laddove è necessario a supporto della sicurezza dei lavoratori”.

I tre sindacati principali (Cgil, Cisl e Uil), infatti, non hanno proclamato lo sciopero generale, ma hanno chiesto con urgenza un incontro con il Ministro dello Sviluppo Economico Patuanelli e il Ministro dell’Economia Gualtieri. L’obiettivo è rivedere l’elenco delle attività che possono rimanere aperte che, come recita il DPCM 22 marzo, “può essere modificato con decreto del Ministero dello Sviluppo Economico, sentito il Ministero dell’Economia e delle Finanze”.

Il Presidente del Consiglio Conte ha confermato che sono in corso degli aggiustamenti alla lista di attività produttive che possono rimanere aperte. “La responsabilità della decisione spetta al Governo”, ha detto. “Ma siamo nel periodo del confronto, che in questo momento di emergenza è ancora più serrato. Decidere di chiudere interi comparti, individuando di punto in bianco quali sono le attività essenziali e non, è un’operazione complicatissima. L’Italia non ha mai affrontato problematiche di questo tipo. Non c’è una univoca soluzione che possa mettere tutti d’accordo: è una cosa complicata perché le filiere produttive sono molto integrate. Mi auguro che non ci siano scioperi di sorta, perché il Paese in questa fase non se lo può permettere. Confido che questi annunci possano rientrare”.

In un comunicato congiunto, Cgil, Cisl e Uil avevano lamentato la sostanziale differenza tra l’elenco delle attività produttive concordate col Governo e quello contenuto nel decreto “per gran parte delle quali – si legge – riteniamo non sussistere la caratteristica di attività indispensabile o essenziale”.

“L’esecutivo ci convoca presentandoci un elenco di attività molto ristrette: dal settore sanitario alle attività agroalimentari, dai trasporti ai servizi essenziali fino a farmaceutica e telecomunicazioni”, ha dichiarato il Segretario Generale della Cgil Maurizio Landini, intervenendo alla trasmissione Circo Massimo di Radio24. “Per tutto il resto prevede una sospensione di almeno due settimane. Noi concordiamo con questo schema di fondo, confermato dalle parole pronunciate dal Presidente del Consiglio Conte nella conferenza stampa di sabato sera. Poi nella giornata di ieri tutto cambia. Iniziano a circolare voci secondo cui le maglie della lista si stanno allargando”. Landini identifica in una “letterina di Confindustria” la causa delle modifiche rispetto a quanto sarebbe stato precedentemente concordato coi sindacati.

Confindustria: “Siamo pronti al confronto”

Le misure adottate dal Governo con l’ultimo DPCM hanno accolto l’approvazione degli industriali. Per la Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa (CNA) il decreto “rappresenta un complesso punto di equilibrio tra il prioritario obiettivo di salvaguardia della salute dei cittadini e l’esigenza di non distruggere il sistema produttivo del Paese, che sta affrontando una crisi senza precedenti”. Per questo motivo la minaccia di scioperi dei sindacati sarebbe “incoerente” e “incomprensibile”.

Dello stesso avviso è Confindustria, preoccupata soprattutto dalle perdite che le chiusure delle attività produttive comportano (e comporteranno). Lo sciopero, per Vincenzo Boccia, Presidente di Confindustria, non è la soluzione. “Mi auguro che lo sciopero non si faccia, che si apra un confronto in un momento così delicato della vita del Paese”, ha detto intervenendo durante la trasmissione televisiva Omnibus di La7. “Dobbiamo preoccuparci che i lavoratori, finita questa fase, possano rientrare nelle imprese italiane. Le aziende devono poter riaprire nella fase 2 e non chiudere definitivamente. La cosa più semplice per noi sarebbe farle chiudere e non assumerci nessuna responsabilità, ma stiamo ponendo delle questioni di buon senso, e se non lo fossero siamo pronti al confronto”.

Nocivelli (Anima): “Problemi per continuità delle filiere, ricambi ed export”

Ma, sul fronte degli industriali, il problema principale è rappresentato dalle migliaia di imprese che sono state invece escluse dall’elenco contenuto nel decreto (dalla meccanica alla componentistica, dalla robotica agli imballaggi), pur essendo funzionali alla continuità delle filiere delle attività produttive consentite.

“Il codice Ateco individua l’attività prevalente, non tutte le attività che un’azienda fa”, ci spiega Marco Nocivelli, Presidente di Anima Confindustria Meccanica. “Aver categorizzato tutte le aziende in questo modo pone un problema grandissimo: tantissime imprese escluse hanno alcune attività assolutamente comparabili a quelle che possono permanere aperte, o che addirittura si trovano all’interno di filiere di utilità pubblica. Faccio un esempio: il codice 28.25 (per la produzione di condizionatori) è un codice in cui è compreso il condizionatore domestico, che potrebbe certamente aspettare, ma anche quello del condizionatore della sala operatoria, per cui vi è una necessità sicuramente maggiore”.

Per casi come questo, il DPCM 22 marzo prevede che “restano sempre consentite anche le attività che sono funzionali ad assicurare la continuità delle filiere delle attività di cui all’allegato 1 […] previa comunicazione al Prefetto della provincia ove è ubicata l’attività produttiva, nella quale sono indicate specificamente le imprese e le amministrazioni beneficiarie dei prodotti e servizi attinenti alle attività consentite; il Prefetto può sospendere le predette attività qualora ritenga che non sussistano le condizioni di cui al periodo precedente”.

Ma anche una soluzione di questo tipo comporta confusione e ritardi. Come ricorda Nocivelli, “per esprimere un parere ragionato il Prefetto dovrà fare un’indagine di qualche tipo, cosa che naturalmente richiede tempo mentre le aziende rimangono in balia degli eventi. Ma anche il solo chiudere o riaprire un’azienda è un’attività che richiede molto tempo, non solo per le aziende di processo ma anche per quelle normali. Se si hanno sistemi server o impianti IT, le persone che curano questa parte dell’azienda devono potervi accedere, perché sono servizi necessari ai lavoratori in smart working. Però oggi su questo punto non c’è molta chiarezza: persone o imprese rischiano multe importanti per il semplice fatto di aver cercato di mantenere viva l’azienda”.

La chiusura totale delle aziende escluse dal listone dei codici Ateco, poi, crea un grande problema per quelle situazioni in cui un’impresa è autorizzata a continuare la produzione, ma quella che le fornisce i pezzi di ricambio no. “Oggi come oggi non è vero che i pezzi di ricambio vengono tenuti a scaffale e rimangono a disposizione delle necessità”, ci spiega Nocivelli. “Spesso e volentieri vengono prodotti a commessa, in base alle richieste connesse ai guasti che avvengono. Ci sono tante aziende che stanno facendo questi pezzi per fare in modo che le attività continuino”.

C’è poi il tema dell’export, di cui le aziende della meccanica italiana sono grandi contributori, tanto che circa il 60% del fatturato di questo settore proviene dalle esportazioni. “Impedire la spedizione delle merci crea un grande problema”, conclude Nocivelli. “Si tratta di prodotti magari già pronti e  per cui vi è una contrattualistica già in essere con le aziende estere che devono ricevere questi materiali, le quali in alcuni casi hanno organizzato il trasporto”.

Aureli (Ucima): “Inviate autodichiarazioni, non lasciamo sole le filiere farmaceutica e alimentare”

I problemi connessi all’export sono la principale fonte di preoccupazione anche nel settore degli imballaggi. Come fanno sapere dall’Ucima (Unione Costruttori Italiani Macchine Automatiche per il Confezionamento e l’Imballaggio), circa l’80% della produzione è destinata all’estero, e oggi le aziende corrono il rischio di non poter più fornire assistenza alla propria clientela, in quanto l’autorizzazione del Prefetto prevista dal decreto (che ad esempio concede la produzione di plastica e legno, ma non quella di bottiglie e barattoli) sarebbe valida solo per l’Italia.

“Le nostre aziende stanno perseguendo le loro attività al servizio della clientela italiana e internazionale”, dichiara il Presidente di Ucima, Enrico Aureli. “Non possiamo e non vogliamo far mancare il nostro prezioso supporto ai clienti che operano nella filiera alimentare e farmaceutica, specialmente in questo difficile momento congiunturale. Per questo, poiché i codici Ateco utilizzati dalla maggior parte delle nostre aziende non sono elencati nel decreto, ci siamo operati nei giorni scorsi per far presente al Governo la rilevanza del nostro settore e del nostro lavoro, e le aziende stanno provvedendo nel frattempo ad inviare le autodichiarazioni alle prefetture”.

Carboniero (Ucimu): “Delusi per esclusione, sospendere i versamenti di tutte le imprese”

Anche il settore dei costruttori di macchine utensili, robot, automazione, rappresentati da Ucimu – Sistemi per produrre, è stato escluso dalla lista di attività produttive del DPCM 22 marzo. Un fatto che ha deluso il Presidente dell’associazione Massimo Carboniero. “Il nostro settore è decisamente importante per molte delle filiere incluse nella lista di codici Ateco stilata dal Governo (come quelle alimentari, agricole o medicali), anche più di alcune che sono presenti”, ci spiega. “Ci è dispiaciuto non essere presenti nell’allegato 1, perché il settore delle macchine utensili è a monte di molti cicli produttivi”.

L’associazione sta cercando di far riconsiderare il proprio settore all’interno della lista delle aziende a cui è concesso di continuare le attività. In alternativa, come detto, le aziende che fanno parte delle filiere essenziali potranno fare richiesta al prefetto di non sospendere le produzioni.

Anche qui uno degli aspetti più controversi della situazione generata dall’ultimo decreto è quella della produzione e fornitura dei ricambi, in questo caso destinati alle macchine utensili. “Una richiesta che sicuramente farà la mia azienda al prefetto, è quella di mantenere quanto meno aperto il ramo ricambi”, continua Carboniero, riferendosi alla sua azienda, la vicentina Omera. “Abbiamo clienti in Italia e nel mondo, anche e soprattutto inclusi nella lista del decreto. Posso senz’altro capire che uno debba bloccare la produzione per un certo periodo, ma comprendo anche che se l’utilizzo del personale si riduce a 3-4-5 persone per il rifornimento di ricambi alle aziende incluse nella lista che utilizzano le nostre macchine, il servizio debba continuare a essere operativo. C’è mezzo mondo che sta lavorando a pieno ritmo, e noi siamo obbligati a continuare a fornire la nostra assistenza a queste aziende”.

L’interruzione della produzione è un problema che si somma a quelli già presenti (per la crisi connessa all’emergenza Coronavirus) nell’industria italiana, a cui il Governo ha tentato di dare una prima risposta con il Decreto Cura Italia a cui seguirà, come già anticipato dai Ministri competenti, un secondo decreto di sostegno all’economia ad aprile. Questa seconda tranche di misure, per Carboniero, dovrà superare alcune criticità del primo pacchetto, e dare liquidità anche alle grandi imprese con fatturato superiore ai 2 milioni di euro, per le quali il versamento di tasse e tributi è stato sospeso solo di qualche giorno.

“Nelle nostre aziende c’è un problema di fatturazione per macchinari che magari sono già prodotti e collaudati, ma non possono essere spediti”, dichiara Carboniero. “I costi per il personale e i fornitori, però, sono già stati sostenuti. Se non si può più fare la consegna, c’è già un problema di liquidità. Le aziende devono pagare i dipendenti, le tasse, i fornitori, tutto senza incassi. È un rischio notevolissimo che potrebbe bloccare, anche in modo definitivo, molte aziende”.

Per questo la richiesta di Ucimu è che nel prossimo decreto del Governo sia compreso il congelamento delle tasse e dei contributi che le imprese versano ogni mese coi modelli F24. “Una misura che darebbe ossigeno alle aziende che così non sarebbero costrette a versare ogni mese molti soldi (Iva, tasse, contributi per i dipendenti)”, continua Carboniero. “Deve poi partire la moratoria dei mutui e dei finanziamenti delle banche a favore delle imprese, e deve durare finché la situazione non si normalizza. Quando supereremo tutto questo si pagheranno le tasse, magari con dilazioni di 6-7 mesi”.

Carboniero chiede al Governo più attenzione per l’industria manifatturiera italiana, “la spina dorsale della nostra economia”. “Bisogna dare un messaggio forte”, conclude. “Si devono investire risorse sullo sviluppo e sulla competitività della manifattura italiana. Per questo continuiamo a ritenere che il piano Transizione 4.0 sia almeno triennale, in modo da permettere alle aziende di cadenzare nel tempo gli investimenti”.

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Francesco Bruno

Giornalista professionista, laureato in Lettere all'Università Cattolica di Milano, dove ha completato gli studi con un master in giornalismo. Appassionato di sport e tecnologia, compie i primi passi presso AdnKronos e Mediaset. Oggi collabora con Dazn e Innovation Post.

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