Il futuro dell'industria

Industria 5.0, cos’è e quale sarà l’impatto sulle aziende

Tutto quello che c’è da sapere su Industria 5.0: che cos’è, qual è la roadmap europea per arrivare a questo nuovo modello di industria, economia e società e quali potrebbero essere gli impatti per le imprese.

Pubblicato il 03 Mar 2023

Industria 5.0 che cos'è

Proteggere, preparare e trasformare: è questa la triplice sfida a cui l’industria europea deve affrontare e che ha portato la Commissione europea a delineare i contorni di una nuova dimensione industriale, sociale e politica, che prende il nome di Industria 5.0.

Un termine utilizzato per indicare una nuova fase evolutiva dell’industria basata su tre pilastri: umano-centrismo, resilienza e sostenibilità.

In questa visione, l’attenzione passa dalle tecnologie e dai cambiamenti che queste possono abilitare sul fronte dei processi e dei modelli di business a questi tre valori che devono alimentare, a tutti i livelli, gli sforzi delle imprese.

Capire quali sono i cambiamenti che hanno portato l’industria a questo punto e come si declinano (concretamente), questi valori, è importante per prepararsi all’impatto che l’Industria 5.0 avrà all’interno e all’esterno delle fabbriche.

Infatti, indipendentemente da tutte le considerazioni e le precisazioni che devono essere fatte – non c’è ancora, ad oggi, un consenso della comunità accademica e industriale intorno all’appropriatezza del termine –  i pilastri di Industria 5.0 indicano un cambiamento più profondo che abbraccia tutta la società e il suo funzionamento.

Così come avvenuto per la digitalizzazione e i paradigmi dell’Industria 4.0, essere pronti di fronte a questa sfida si trasformerà ben presto da leva di competitività a necessità per la sopravvivenza del business.

Quando nasce l’Industria 5.0

Se per la prima, la seconda e la terza Rivoluzione Industriale è piuttosto semplice individuare un’innovazione (e quindi anche una data o un arco temporale) che ha innescato il cambiamento e per Industria 4.0 si può individuare una data relativa a quando si è iniziato a utilizzare il termine, per Industria 5.0 il discorso è ben diverso.

Anche se il termine non è stato coniato in quell’occasione – si possono infatti rintracciare articoli sul tema già nel 2016 –, il termine “Industria 5.0” si è iniziato a diffondere nel linguaggio di aziende e media dopo la pubblicazione del policy briefing della Commissione europea del gennaio 2021 che ha voluto delineare proprio i pilastri e i paradigmi di quella che viene da molti considerata una nuova fase evolutiva dell’industria.

Di Industria 5.0 si parlava, tuttavia, già da tempo, come sottolinea lo stesso documento della Commissione.

Il termine, come abbiamo spiegato in questo articolo, è stato anticipato da quello di “Società 5.0” emerso in Giappone già a metà dello scorso decennio, ad indicare “una società incentrata sull’uomo che bilancia l’avanzamento economico con la risoluzione dei problemi sociali attraverso un sistema che integra fortemente il cyberspazio e lo spazio fisico”.

Con società 5.0 in Giappone si indica quindi non solo una nuovo paradigma produttivo, ma una trasformazione della società tutta, fin dai principi che animano la sua economia e la sua politica, a tracciare una linea di continuità (e, allo stesso tempo, discontinuità) con quelle che sono state le precedenti evoluzioni sociali:

  • Società 1.0, anche chiamata “la società della caccia”
  • Società 2.0, quella dell’agricoltura
  • Società 3.0, la società industriale
  • Società 4.0, la società dell’informazione
Industria 5.0 che cos'è e quando nasce

Società 5.0 designa quindi un futuro incentrato intorno a un modello “human technology oriented” che rimette la tecnologia al servizio della persona.

Industria 5.0: le differenze con industria 4.0

L’Industria 5.0 poggia quindi su un modello di società e industria incentrato intorno all’uomo, che vuol dire costruire su quanto fatto già da Industria 4.0, far leva sugli oggetti connessi e le fabbriche intelligenti per alimentare tutti i vantaggi in termini di efficienza e flessibilità di cui si è tanto parlato in questi anni, spostando però il focus dalle tecnologie all’uomo.

E per farlo, c’era davvero bisogno di utilizzare un diverso framework? Un secondo policy briefieng della Commissione sul tema (pubblicato nel 2022) spiega perché “Industria 4.0 non è il framework adatto a raggiungere gli obiettivi europei”.

Nell’ultimo decennio, l’Europa ha gradualmente intensificato il suo impegno per la trasformazione industriale, soprattutto lavorando alla transizione verso la cosiddetta industria 4.0, un paradigma essenzialmente tecnologico, incentrato sull’emergere di oggetti cyber-fisici, che promette una maggiore efficienza grazie alla connettività digitale e all’intelligenza artificiale. Tuttavia, il paradigma dell’Industria 4.0, così come attualmente concepito, non è adatto allo scopo in un contesto di crisi climatica e di emergenza planetaria, né affronta le profonde tensioni sociali. Al contrario, è strutturalmente allineato con l’ottimizzazione dei modelli di business e del pensiero economico che sono alla base delle minacce che stiamo affrontando. L’attuale economia digitale è un modello “winner-takes-all” che crea monopolio tecnologico e una gigantesca disuguaglianza di ricchezza.

L’Industria 4.0 manca quindi di “quelle dimensioni chiave per la progettazione e le prestazioni che saranno indispensabili per rendere possibile una trasformazione sistemica e per assicurare il necessario disaccoppiamento dell’uso delle risorse e dei materiali dagli impatti negativi per l’ambiente, il clima e la società”.

E queste dimensioni, spiegano gli autori del briefing, sono:

  • caratteristiche rigenerative della trasformazione industriale, in modo da abbracciare l’economia circolare e i cicli di retroazione positiva non come un ripensamento, ma come un pilastro fondamentale della progettazione di intere catene del valore
  • una dimensione intrinsecamente sociale, che richiede attenzione al benessere dei lavoratori, alla necessità di inclusione sociale e all’adozione di tecnologie che non sostituiscano, ma piuttosto integrino, quando possibile, le capacità umane
  • una dimensione ambientale obbligatoria, che porti a promuovere trasformazioni che eliminino l’uso di combustibili fossili, promuovano l’efficienza energetica, attingano a soluzioni basate sulla natura, rigenerino i pozzi di carbonio, ripristinino la biodiversità e creino nuovi modi di prosperare in una rispettosa interdipendenza con i sistemi naturali

Industria 5.0: che cosa significa human centric

In questa visione della società, pertanto, uno dei valori che animano la produzione deve essere proprio il benessere del lavoratore.

Si tratta di un tema non nuovo per l’industria: questo ruolo di “farsi promotrice di benessere e inclusione sociale”, infatti, le è stato attribuito più volte in diversi accordi internazionali in materia di ambiente e sostenibilità, come nella dichiarazione di Lima (2013) e negli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, formulata nel 2015.

Un tema che, indubbiamente, ha acquisito maggiore rilevanza negli ultimi anni in seguito a una sempre più progressiva digitalizzazione – e il cambiamento, quindi, dei modelli lavorativi “tradizionali” – e un’evoluzione dei valori sociali accelerati anche da eventi di shock (come quello della pandemia) che hanno spinto le persone a vedere la dimensione lavorativa sotto un’ottica diversa.

In questo contesto, il lavoro non serve unicamente a generare profitto, ma diventa un fattore essenziale della realizzazione di una persona. Ciò vuol dire, ad esempio, che se in passato si accettava di lavorare per un’azienda di cui non si condividevano i valori o non si apprezzava la cultura, adesso queste dimensioni diventano cruciali nella scelta dell’organizzazione per cui lavorare.

Un’evoluzione culturale, in primis, figlia di una generazione che ha masticato i temi della sostenibilità fin dalla scuola dell’infanzia e che ora, raggiunta l’età lavorativa, non ne vuole sapere di accettare i vecchi paradigmi produttivi, lavorativi, economici e sociali.

Ma riportiamo il discorso all’interno dell’industria. Come si declina, a livello produttivo, questo umano-centrismo? E che ruolo ha l’uomo in un contesto sempre più automatizzato?

A spiegarlo, già nel 2015, è un articolo di Esben H. Østergaard, fondatore dell’azienda robotica Universal Robots, che scrive:

Nei processi produttivi, l’automazione può essere sfruttata al massimo delle sue potenzialità solo quando c’è anche una scintilla di creatività umana che influenza i processi. Da sola, una produzione automatizzata con robot industriali tradizionali farà solo ciò che gli viene detto, spesso solo dopo lunghi e faticosi sforzi di programmazione. I robot collaborativi, invece, lavorano in sincronia con i dipendenti umani. Queste due forze si completano a vicenda e prosperano insieme, poiché l’uomo può aggiungere il cosiddetto “qualcosa di speciale”, mentre il robot elabora ulteriormente il prodotto o lo prepara per l’attenzione umana. In questo modo, il dipendente viene responsabilizzato e utilizza il cobot come uno strumento multifunzionale: un cacciavite, un dispositivo di imballaggio, un pallettizzatore, ecc. Il robot non è destinato a sostituire la forza lavoro umana, ma ad assumere compiti faticosi o addirittura pericolosi. In questo modo, i dipendenti umani possono usare la loro creatività per dedicarsi a progetti più complessi.

Industria 5.0: la sfida socio-ambientale

La sostenibilità è, come abbiamo già spiegato, uno dei pilastri di Industria 5.0. La sostenibilità non è qualcosa che ha a che fare soltanto con l’ambiente, ma anche con la società e con l’economia: è sostenibile un’economia che garantisce alle future generazioni lo stesso benessere di quelle passate, così come è sostenibile una società che promuove il benessere e l’inclusione di tutti i suoi componenti.

Per capire come si declina, concretamente, questa sfida, si può fare riferimento agli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030 più inerenti alla dimensione sociale, che sono:

  • sconfiggere la povertà (SDG 1)
  • sconfiggere la fame (SDG 2)
  • salute e benessere (SDG 3)
  • istruzione di qualità (SDG 4)
  • parità di genere (SDG 5)
  • acqua pulita e servizi igienico-sanitari (SDG 6)
  • ridurre la disuguaglianze (SDG 10)
  • pace, giustizia e istituzioni solide (SDG 16)

Sul fronte ambientale la sfida non potrebbe essere più grande, urgente e al tempo stesso sottovalutata: nonostante i continui allarmi lanciati dal mondo scientifico riguardo i rischi associati al cambiamento climatico e gli sforzi messi in atto nel contesto delle politiche internazionali – che, tuttavia, si sono rilevati troppo eterogenei e fievoli – sembriamo ormai destinati a fallire l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5°C.

E gli effetti sono già qui: nel 2022 in Italia gli eventi cimatici estremi sono aumentati del 55%. Siccità, grandinate, trombe d’aria e alluvioni sono stati i fenomeni che hanno fatto segnalare l’incremento più significativo: in tutto sono stati 310 e hanno provocato 29 morti, senza contare i danni economici.

Tenendo conto unicamente della siccità che ha colpito l’Italia la scorsa estate (e che ancora non si è risolta), la Coldiretti stima che sia costata all’agricoltura italiana danni per 6 miliardi di euro, pari al 10% della produzione agroalimentare nazionale, a cui vanno aggiunti gli effetti catastrofici legata alla mancanza d’acqua, dal dilagare degli incendi allo scioglimento dei ghiacciai.

Eppure la rotta per evitare questa catastrofe era stata tracciata da tempo: anche tralasciando che di utilizzo sostenibile delle risorse si parlava già ai tempi di Platone –  abbiamo ripercorso brevemente alcune tappe evolutive del concetto di sostenibilità e delle sue caratteristiche –, già a fine degli anni Ottanta l’economista Herman Daly pubblicò le tre regole per una società sostenibile:

  • un uso sostenibile delle risorse rinnovabili. Questo significa che il ritmo di utilizzo dovrebbe essere inferiore alla velocità con cui le risorse sono in grado di rigenerarsi
  • uso sostenibile delle risorse non rinnovabili, vale a dire che il loro esaurimento deve essere compensato dal passaggio a risorse rinnovabili
  • un tasso di emissione sostenibile per l’inquinamento e i rifiuti. Secondo questo principio, il ritmo della produzione di emissioni e di rifiuti non dovrebbe essere più veloce del ritmo al quale i sistemi naturali possono assorbirli, riciclarli o renderli innocui

Una nuova visione per l’industria: verso l’Industria 5.0

Il documento della Commissione datato 2022 approfondisce i temi trattati nel primo policy briefing e delinea, nel dettaglio, tutti gli elementi che andranno a costituire l’Industria 5.0, vale a dire:

  • responsabilità a livello di catena di fornitura e di ecosistema produttivo
  • un’economia rigenerativa e circolare “by design”
  • autosufficienza, adattabilità e riduzione della fragilità
  • decentralizzazione per raggiungere sostenibilità e resilienza
  • digitalizzare con uno scopo, al fine di vivere in armonia con i limiti del pianeta
  • misurare tutto ciò che è importante: metriche rigenerative e quadro normativo

Vediamo ora come si mettono a terra, nella visione della Commissione, queste aree di intervento.

Responsabilità delle catene di fornitura e dell’ecosistema produttivo

Il cammino verso l’industria 5.0 richiede, innanzitutto, un deciso allontanamento dai modelli di capitalismo neoliberista, incentrati sulla produzione per il profitto e sulla “supremazia degli azionisti”, a favore di una visione più equilibrata del valore nel tempo e di una comprensione polivalente del capitale umano e naturale, oltre che finanziario.

Questo cambiamento implica molto più della due diligence per le catene di approvvigionamento, ma una comprensione del de-risking attraverso la costruzione della resilienza.

Costruire la resilienza lungo tutta la catena del valore richiede un approccio basato su persone-pianeta-prosperità che si concentri sulle leve a breve termine e sulla pianificazione a lungo termine piuttosto che sulla ricerca del profitto a breve termine.

Economia rigenerativa e circolare “by design”

Gli approcci rigenerativi e di economia circolare forniscono un quadro di riferimento per le soluzioni di sistema e soprattutto per la trasformazione sistemica, al fine di rendere sostenibili le attività di base e i modelli industriali.

Questo è il fulcro di un approccio all’Industria 5.0 e riunisce tre principi chiave dei sistemi, ognuno dei quali è guidato da un focus sul design, ovvero:

  • progettare per eliminare gli sprechi e l’inquinamento
  • mantenere i prodotti e i materiali in uso e in circolazione a fini produttivi
  • rigenerare i sistemi naturali e migliorare i pozzi di assorbimento del carbonio

Questo modello di industria, spiega la Commissione, offre un’alternativa più distribuita, diversa e inclusiva rispetto ai paradigmi esistenti.

E per fare ciò, occorre che la trasformazione avvenga seguendo uno scopo chiaro, mirato a consentire la transizione verso percorsi economici circolari, intersettoriali, rigenerativi e rilevanti per l’industria.

“Ciò significa andare decisamente oltre i paradigmi dell’Industria 4.0 che incoraggiano un’attività economica estrattiva e di consumo abilitata dalla tecnologia digitale, che non porta ad altro che a un’accelerazione degli impatti negativi sul clima e della perdita di ecosistemi”, spiegano gli analisti.

Autosufficienza, adattabilità e riduzione della fragilità

La pandemia, così come le crisi economiche che si sono succedute negli ultimi vent’anni, hanno mostrato quanto impreparata (e poco resiliente) fosse l’economia europea.

Nello specifico, i recenti avvenimenti (pandemia e conflitto russo-ucraino) hanno evidenziato quanto la dipendenza dell’Unione da alcuni Paesi in ambito di terre rare, componenti indispensabili per filiere strategiche (come i microchip) ed energia (si pensi, ad esempio, al gas russo) mettano a serio rischio la sovranità, l’indipendenza e la stabilità dell’UE.

Per questo, le politiche volte a promuovere il cammino verso l’Industria 5.0 devono necessariamente passare per strategie volte a ridurre queste dipendenze.

La Commissione ha già avviato diversi programmi in merito, come la strategia REPowerEU e la nuova strategia industriale europea.

Decentralizzare per raggiungere resilienza e sostenibilità

Al punto precedente si ricollega l’impegno dell’UE a decentralizzare le catene di fornitura che, spiega il documento della Commissione, significa “individuare e ridurre i gap tra la produzione e il consumo di cibo”.

Un impegno che non deve estenersi unicamente alla produzione e al consumo di beni fisici, ma che deve riguardare anche il mondo digitale. Come si spiega nel documento:

Sebbene il Web 2.0 abbia dato l’opportunità alle piattaforme tecnologiche di catturare il valore generato dai creatori di contenuti e dai dati degli utenti, il Web 3.0 promette di costruire una nuova Internet basata sulla decentralizzazione e sulla sovranità degli utenti, rispecchiando e rendendo possibile l’evoluzione del lavoro e dei turni di lavoro

Digitalizzare con uno scopo, al fine di vivere in armonia con i limiti del pianeta

“L’industria europea sarà digitalizzata o cesserà di esistere”, spiegano i gli analisti della Commissione, a sottolineare il legame tra il digitale e la sostenibilità (intesa nel senso più completo del termine).

Tuttavia, nonostante i tanti vantaggi della digitalizzazione, che partono dall’industria ma che si estono a quasi ogni ambito della vita di ognuno di noi, vi sono anche rischi da bilanciare e fattori da mitigare affinché la digitalizzazione si sviluppi lungo dimensioni positivi. Rischi che gli analisti della Commissione riconducono a:

  • la continua concentrazione del potere economico, l’accumulo di valore (e di dati) nelle mani di poche aziende tecnologiche (non europee)
  • la trasformazione mainstream e la rapida crescita dei modelli di business online che hanno progressivamente portato a preoccupazioni senza precedenti in termini di sostenibilità economica, sociale e ambientale
  • la centralizzazione e la platformizzazione dei modelli di business digitali, che ha portato molte aziende dell’economia reale in una situazione di dipendenza, molti lavoratori in una situazione di precarietà, molti cittadini in una situazione di sorveglianza privata o pubblica
  • l’aumento delle emissioni generate dalle tecnologie digitali, con Internet che è diventato la più grande macchina alimentata a combustibili fossili del mondo, in grado di generare il 14% delle emissioni globali entro il 2040
  • la crescente domanda di beni e di una disponibilità degli stessi sempre più immediata, spinta dalle piattaforme digitali basate sulla monetizzazione dei dati e i modelli di business alimentati dalle entrate pubblicitarie

E se è vero che l’industria europea non può sopravvivere senza digitalizzarsi, è altrettanto vero che questi fattori stanno spingendo la società e l’industria verso una direzione che allontana dagli obiettivi prefissati dall’UE. Per questo, gli analisti della Commissione avvertono:

Senza un chiaro riorientamento e orientamento della trasformazione digitale per consentire un’economia meno dispendiosa, più efficiente dal punto di vista energetico, più rigenerativa, distribuita, diversificata e inclusiva – più umana, rispettosa del benessere e del senso di sé delle persone – l’affidamento all’economia digitale è un pilastro molto traballante della “transizione gemella”. La digitalizzazione deve passare da un “internet delle cose” a un “digitale per le persone-pianeta-prosperità”

Misurare tutto ciò che conta: metriche rigenerative e quadro normativo

Una nuova visione di industria richiede, in primis, un nuovo quadro regolatorio e metriche specifiche per misurare i progressi fatti.

Se l’obiettivo è allontanarsi da un’economia che persegue il profitto nel breve termine, allora anche le metriche devono rispecchiare questo nuovo focus.

Le metriche utilizzate, in questo nuovo contesto, devono quindi essere volte ad analizzare diversi fattori, come: il “rendimento dei beni materiali”; il disaccoppiamento dei materiali; il “rendimento dell’energia investita”; il “rendimento dei beni naturali”; la valorizzazione del capitale umano e naturale.

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Le tecnologie di Industria 5.0

Cambiamenti non solo tecnologici, quindi, ma che sono abilitati da quelle tecnologie che (in gran parte) sono state protagoniste di Industria 4.0.

Più nello specifico, le sei tecnologie chiave di Industria 5.0 sono:

  • interazione uomo-macchina personalizzata
  • tecnologie ispirate alla natura e materiali intelligenti
  • gemelli digitali e simulazione
  • tecnologie per la trasmissione, l’immagazzinamento e l’analisi dei dati
  • intelligenza artificiale
  • tecnologie per l’efficienza energetica, le energie rinnovabili, lo stoccaggio dell’energia e l’autonomia

L’impatto di Industria 5.0 sui mercati

Così come i cambiamenti che hanno portato a parlare di Industria 5.0 non restano limitati all’interno dei confini industriali, lo stesso si può dire dei suoi effetti.

Come abbiamo visto nell’analisi del documento della Commissione, Industria 5.0 indica, oltre a un diverso concetto di produzione, un cambiamento nei modelli economici, sociali, lavorativi e molto altro.

E, allo stesso modo, così come tutti gli stakeholder devono farsi agenti e promotori del cambiamento, gli stessi sono e saranno soggetti agli impatti di questi nuovi paradigmi sui mercati.

Prendiamo come esempio un’azienda manifatturiera, i possibili impatti di Industria 5.0 si potrebbero rintracciare in:

  • l’impegno a redigere il bilancio di sostenibilità (che interessa circa 50.000 imprese in tutta l’UE)
  • l’esclusione o l’accesso facilitato a opportunità di finanziamento in base ai punteggi e i criteri ESG dell’azienda
  • la brand reputation. Sono sempre di più, infatti, i consumatori che basano le proprie scelte di acquisto sulla sostenibilità delle aziende e dei prodotti che vendono
  • la capacità di attrarre e trattenere la forza lavoro
  • la capacità di ottimizzare i consumi e l’utilizzo delle risorse necessarie alla produzione, strategica per tutelare i margini di profitto
  • la capacità di creare business model innovativi basati sull’economia circolare e rigenerativa

Da questa lista, di certo non esaustiva, si può capire come sposare i valori e i pilastri di Inudstria 5.0 sia strategico per la competitività delle organizzazioni. Tornando a una delle frasi citate dal documento della Commissione, sarebbe forse più corretto dire “l’industria europea sarà digitalizzata e sostenibile o si estinguerà”.

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Michelle Crisantemi

Giornalista bilingue laureata presso la Kingston University di Londra. Da sempre appassionata di politica internazionale, ho vissuto, lavorato e studiato in Spagna, Regno Unito e Belgio, dove ho avuto diverse esperienze nella gestione di redazioni multimediali e nella correzione di contenuti per il Web. Nel 2018 ho lavorato come addetta stampa presso il Parlamento europeo, occupandomi di diritti umani e affari esteri. Rientrata in Italia nel 2019, ora scrivo prevalentemente di tecnologia e innovazione.

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