La sfida della transizione digitale ed ecologica per la manifattura italiana

Le twin revolutions, cioè la transizione digitale ed ecologica, rappresentano un’importante sfida per la manifattura italiana. Dalle risorse finanziarie alle competenze, dalla giusta cultura ai parametri per misurare i progressi ottenuti: sono tanti i fattori che abilitano il cambiamento verso un’economia e una manifattura circolare. Questi temi che sono stati al centro di un incontro a cui hanno partecipato esponenti di primo piano del mondo accademico, della politica e dello scenario industriale italiano.

Pubblicato il 06 Nov 2021

transizione digitale ed ecologica

Nei giorni in cui si svolge, a Glasgow, la COP26 – che chiama a raccolta 196 Paesi per discutere le strategie necessarie al contrasto dei cambiamenti climatici – si intensifica il dibattito sul ruolo dell’industria nel guidare la transizione verde.

Soltanto guardando ai dati italiani si capisce quanto l’industria giochi un ruolo di primo piano nel passaggio verso un’economia circolare e una società più sostenibile. Il settore è infatti responsabile di oltre il 40% del consumo energetico italiano: secondo i dati Terna, nel 2020 l’industria ha assorbito il 44% dei consumi elettrici e la sola manifattura il 38%.

Ma non si tratta solo di energia: il passaggio verso un’economia circolare, necessario per raggiungere gli obiettivi europei di contrasto ai cambiamenti climatici, richiede di ripensare completamente l’approccio alla produzione, dalla scelta delle materie prime, ai processi all’interno degli stabilimenti, a tutto il ciclo di vita del prodotto.

Cambiamenti a cui oggi si può guardare non solo con speranza, ma con concretezza, grazie alla maturità raggiunta dalle tecnologie digitali. Saranno proprio queste, sottolineano gli esperti, i driver che abiliteranno la transizione. Per questo si utilizza il termine “twin revolutions” (rivoluzioni gemelle) quando si parla della transizione verde e di quella blu o digitale.

Proprio questo è stato il tema della puntata di su 360ON, il format del gruppo Digital 360, intitolata “Transizione digitale e transizione ecologica: la doppia sfida per la manifattura italiana”. Ad animare la discussione esponenti di primo piano del mondo accademico, della politica e dello scenario industriale italiano per fornire alcuni spunti di riflessione sugli step da seguire per effettuare i cambiamenti necessari a una trasformazione digitale e sostenibile della manifattura.

Il ruolo del digitale nel passaggio a una manifattura più sostenibile

Gli esperti sembrano essere tutti d’accordo: le tecnologie digitali sono un importante fattore abilitante della trasformazione verde. Lo sottolinea un recente studio di The European House – Ambrosetti che rileva che il contributo diretto ed indiretto del digitale sarà responsabile di oltre il 50% dell’abbattimento delle emissioni.

Se ne è occupato anche l’Osservatorio Transizione Industria 4.0 della School of Management del Politecnico di Milano che nella sua indagine ha analizzato, attraverso varie interviste, l’approccio delle aziende a progetti di promozione della sostenibilità e della transizione verde. 

L’indagine ha sottolineato che, a fronte di diversi progetti per il futuro e alcuni già posti in essere, ciò che è cambiato è la consapevolezza del bisogno di sostenibilità per le aziende. Un bisogno che nasce dalla necessità di ridurre i consumi energetici e i costi di produzione, ma anche da uno stimolo esterno, come spiega Luca Fumagalli, Professore del Politecnico di Milano.

“Mentre per la trasformazione digitale lo stimolo viene dall’industria stessa, sono i consumatori che richiedono la sostenibilità, orientando così anche le risposte delle aziende”, spiega Fumagalli.

Le aziende devono quindi puntare sulla sostenibilità per restare competitive sui mercati mondiali. E non basta che il prodotto finale sia sostenibile: i consumatori vogliono, infatti, che tutto il processo che ha portato a quel prodotto sia green.

Per rispondere a questi cambiamenti, le aziende devono investire proprio sulle tecnologie digitali, che permettono l’efficientamento dei processi e dei prodotti, ma anche la tracciabilità di tutto ciò che avviene lungo la filiera produttiva.

“Parlare di sostenibilità senza parlare di trasformazione digitale significa parlare di una sorta di decrescita, tutt’altro che felice”, osserva Stefano Epifani, presidente della Fondazione per la Sostenibilità Digitale e del Digital Transformation Institute.

Importante sarà anche scegliere le tecnologie sulle quali investire perché, come sottolineano molti esperti, lo stato di maturità raggiunto dalle tecnologie 4.0 contribuisce al fabbisogno energetico dell’industria (pensiamo, ad esempio, alla quantità di energia necessaria per alimentare i data center).

Le aziende devono quindi approcciarsi a queste trasformazioni con una visione strategica, investendo su quelle tecnologie che promuovono, davvero, un efficientamento sostenibile. Un esempio viene proprio dal cloud, che favorisce l’accesso alle applicazioni necessarie per standardizzare ed efficientare i processi anche a quelle aziende che, altrimenti, non avrebbero gli strumenti per dotarsi delle infrastrutture necessarie.

Applicazioni che possono essere remotizzate in data center gestiti con i più alti standard di efficientamento energetico e che prendono il nome di “green data center”.

Il possibile ruolo di un nucleare “pulito”

Tuttavia, anche tenendo conto del risparmio energetico che si può ottenere grazie alla tecnologie digitali, i dati ci dicono che le sole energie rinnovabili non saranno sufficienti per soddisfare il fabbisogno energetico di sistemi economici che, comunque, continueranno a crescere. Ecco perché anche in Italia si è riacceso il dibattito sul nucleare, un tema purtroppo molto divisivo e su cui si fatica a ragionare con razionalità.

Attualmente l’Europa conta più di 100 reattori attivi che producono più del 25% dell’energia elettrica totale, il 48% della quale è carbon-free. Una tecnologia di certo non vista di buon occhio da gran parte della popolazione ma che, invece, potrebbe dare la spinta necessaria per vincere la sfida della decarbonizzazione.

Sono già diverse le realtà, anche italiane, coinvolte nell’innovazione del settore che intende portare a un nucleare sicuro e, soprattutto, pulito. Un “new clear”, come lo definisce Luca Manuelli, che oltre a essere presidente del Cluster Fabbrica Intelligente è anche Ceo di Ansaldo Nucleare e Chief Digital Officer di Ansaldo Energia, azienda italiana che opera nel settore dell’energia e che sta affrontando, in prima persona, il percorso di riconversione verso l’abbandono del carbone e la ricerca di fonti energetiche efficienti e pulite.

Nel breve termine, l’evoluzione del nucleare porterà ad ottenere energia da “small advanced nuclear reactor”, ovvero micro reattori che permettono di innalzare gli standard di sicurezza in maniera esponenziale, spiega Manuelli.

“La sfida che deve vincere l’industria è anche quella della modularità: invece di fare una centrale energetica che costa 10-15 miliardi e che ha una vita di 10-15 anni, c’è possibilità di realizzare un micro reattore di cui le parti possono essere prodotte in una fabbrica”.

Nel lungo periodo, la sfida è invece quella della fusione, un processo molto difficile da realizzare, sia per via delle alte temperature che richiede (150 milioni di gradi Celsius), che per la scarsità di risorse globali di trizio (necessario al processo), sia perché sono necessari enormi magneti per contenere il plasma (un gas portato a diversi milioni di gradi Celsius) in un dispositivo a fusione sottovuoto, denominato “tokamak”.

A questo obiettivo è dedicato il progetto europeo ITER, il più grande al mondo in questo ambito che, spiega Manuelli, “prevede per il 2025 l’accensione del primo plasma del reattore nel quale per 10 anni si sperimenterà la fusione per avere, laddove l’esisto sia favorevole, la possibilità di avere un game changer nella produzione di un’energia sicura in quantità infinita”.

La servitizzazione e l’ambiente: la testimonianza di Cosberg

Oltre alla sfida energetica, vi sono altri importanti cambiamenti che vanno promossi all’interno della manifattura per abilitare il passaggio a un’economia circolare.

Cambiare il ciclo di vita dei prodotti richiede, infatti, una rivoluzione del mindset delle aziende, da una produzione incentrata sul prodotto a una che mette al centro il servizio. Ma non solo: il passaggio da una visione di “proprietà” a una di possesso del bene strumentale è un altro step fondamentale per estendere la vita non solo dei prodotti, ma anche degli impianti.

Lungo queste direzioni si sta muovendo Cosberg, azienda bergamasca che costruisce linee per l’assemblaggio automatico. L’azienda ha intrapreso un percorso di trasformazione che la porterà dall’essere fornitore di hardware a fornitore di capacità produttiva intesa come servizio, nell’ottica della servitization.

Un percorso intrapreso per rispondere ai trend del mercato, come spiega Alice Viscardi, Digital Process Specialist.

“Oggi le macchine hanno vita utile sempre più breve, mentre i servizi ci permettono di estendere vita utile dei prodotti e degli impianti produttivi che non vengono più utilizzati per una missione produttiva, ma per più missioni. Il noleggio della capacità produttiva ci permette di utilizzare lo stesso impianto per più clienti”.

Ed è così che si può passare da un modello lineare a uno circolare, dove la proprietà (e la responsabilità dell’impianto) rimane del costruttore durante tutto il ciclo di vita, mentre l’azienda cliente non acquista l’impianto, ma ne paga l’utilizzo.

Una transizione non semplice, poiché richiede a Cosberg di lavorare a servizi che permettano di sviluppare moduli produttivi standard ma che si adattino, al tempo stesso, alle specifiche esigenze produttive del cliente, con servizi che consentano di mantenere condizioni di vita ottimali per tutta la vita dell’impianto.

In questa visione, una volta finita la missione produttiva, i moduli saranno smontati, rigenerati e riutilizzati per un’altra missione, con evidenti impatti positivi anche sull’ambiente.

Le risorse messe a disposizione per le transizioni digitale e green

I cambiamenti fin qui discussi richiedono strategie di accompagnamento volte a mobilitare, in primo luogo, le risorse necessarie per supportare le imprese in questi investimenti.

Ed è proprio questo il compito del PNRR, che mette a disposizione circa 50 miliardi per la trasformazione digitale – 40 miliardi dalla Missione 1 del PNRR, a cui si aggiungono i quasi 10 miliardi tra fondo complementare e React EU – e circa 70 miliardi per la trasformazione digitale (60 miliardi, a cui si aggiungono altri 10 miliardi tra fondo complementare e React EU).

A questi fondi si aggiungono quelli messi a disposizione dal Piano Transizione 4.0, del valore complessivo di circa 18 miliardi. In particolare sono incentivati gli investimenti in beni strumentali orientati al miglioramento dell’efficienza e dell’uso delle risorse energetiche e i progetti di innovazione con finalità green.

Quello dell’integrazione tra la componente digitale e green è però un vettore su cui si potrebbe fare di più. “È un ambito dove sicuramente si può fare meglio – sottolinea Marco Calabrò, dirigente del Ministero dello Sviluppo Economico – ma, almeno per quanto riguarda il Piano Transizione 4.0 bisogna tenere conto della ragione che spinse il Governo, nel 2017 a dare vita a questa strategia, che era rinnovare il parco macchine e incentivare gli investimenti privati delle imprese in chiave digitale”.

“Ci siamo interrogati più volte su come poter estendere i beni agevolabili sostenuti dall’ex iperammortamento – prosegue Calabrò – per cercare di includere in quell’elenco, che come sappiamo nasce in altro ambito, anche gli investimenti che perseguono finalità green. In realtà ci siamo accorti che gran parte di quei beni già soddisfano requisito circolarità e trasformazione ecologica”, aggiunge.

Il piano Transizione 4.0 – va ricordato – è l’erede del piano Industria 4.0: una misura che, sottolinea Calabrò, è nata nel 2017 con l’obiettivo di dare uno “shock” positivo agli investimenti del sistema imprenditoriale e che dovrà necessariamente essere trainata verso la sua naturale conclusione.

In parte, questo processo è già iniziato con la legge di bilancio del 2021 che, stando alle bozze diffuse, da una parte estende alcune agevolazioni fino al 2025 e altre al 2030 – fornendo quindi alle imprese quella sicurezza di cui hanno bisogno per pianificare gli investimenti – e, dall’altro, rimodula fortemente le aliquote.

Vi è poi il nodo del confronto che si dovrà fare con la Commissione Europea per quanto riguarda il principio del ‘Do Not Significantly Harm’, ovvero il principio per cui l’Europa non finanzia direttamente (e non consente il cumulo con altri incentivi che lo fanno) progetti suscettibili di danneggiare l’ambiente, il che si traduce per il nostro Paese nell’impossibilità di sostenere finanziariamente le attività legate ai codici Ateco ritenuti altamente inquinanti. 

Risorse, cultura e competenze: gli ostacoli alla transizione

Ma la transizione digitale e green non è solamente un problema di risorse. Nonostante siano stati fatti passi in avanti, c’è ancora un problema di cultura e, soprattutto, di competenze.

Mentre, infatti, l’Europa guarda già all’Industria 5.0, in Italia manca ancora, in molte aziende, la consapevolezza delle competenze che sono necessarie ad affrontare i cambiamenti in atto. Competenze senza le quali le imprese rischiano di investire in tecnologie che non sapranno utilizzare e che non porteranno ai risultati sperati.

E qui la situazione si complica, perché non è soltanto la mancanza di risorse a frenare il cambiamento. “Non è ancora chiaro quale sia il modello vincente, perché la componente del Piano Transizione 4.0 che meno ha avuto successo è stata proprio quella della formazione. Manca proprio la consapevolezza, soprattutto nelle aziende più piccole, delle competenze necessarie ed è proprio su questo che dobbiamo ancora lavorare”, aggiunge Calabrò.

Uno sforzo in cui giocano un ruolo chiave tutte le realtà che fanno parte del sistema di trasferimento tecnologico del nostro Paese, come il Cluster Fabbrica Intelligente, l’associazione riconosciuta dal Ministero della Ricerca – di cui Luca Manuelli è Presidente – che punta ad attuare una strategia basata sulla ricerca e l’innovazione per aumentare la competitività del manifatturiero italiano.

Un lavoro che dal 2018 ad oggi ha portato alla costruzione di sei fabbriche faro, chiamate Lighthouse Plant, portate avanti da aziende come Wärtsilä Italia,  HSD Mechatronics, Ansaldo Energia, ABB, Hitachi Rail e Tenova-Ori Martin, con 11 stabilimenti dimostratori situati in otto regioni.

Il risultato di un investimento di oltre 130 milioni (con un contributo del Mise di oltre 30 milioni e delle regioni di oltre 10 milioni) che ha portato all’implementazione di piani di ricerca e sviluppo che hanno permesso non solo la digitalizzazione dei processi, ma anche di allargare  il paradigma di coinvolgimento al mondo delle filiere.

ESG, perché è importante misurare la sostenibilità

Tecnologie, risorse finanziarie, cultura e competenze: come abbiamo finora visto, sono tanti i fattori necessari al cambiamento. Ma, per essere sicuri che le azioni messe in atto portino al raggiungimento degli obiettivi prefissati, è fondamentale misurare i progressi.

Proprio su questo ha insistito il rapporto del World Manufacturing Forum, che ha auspicato nelle consuete raccomandazioni finali la definizione di indicatori strategici (o KPI) relativi alla circolarità nella manifattura.

Di questo si occupa l’ESG, acronimo di Environmental Social and Governance. Un concetto che indica una serie di criteri (tipicamente di tipo discrezionale) di misurazione standard delle attività ambientali, sociali e della governance di un’organizzazione.

“Il tema oggi è ricondurre questi criteri a kpi, roadmap e rating condivisi – spiega Mauro Bellini, Direttore di ESG 360 – perché tutti questi temi che rientrano sotto cappello sostenibilità attengono a dimensioni di come le aziende si comportano verso l’ambiente, i territori, le filiere e i dipendenti. Dimensioni molto complesse da ricondurre a kpi standardizzati e condivisi. Tuttavia, è questa la dimensione che consente di arrivare a questi obiettivi”. 

Un tema ad oggi molto importante, perché sono le aziende più virtuose in questi ambiti riscontrano anche un vantaggio competitivo e hanno la capacità di rispondere meglio a dei fattori di rischio. “Non solo, c’è anche un vantaggio finanziario, perché il mondo finanziario guarda con estrema attenzione a questo tipo di rating” aggiunge Bellini.

La parola chiave è quindi “misurabilità”, che diventerà sempre più importante per le aziende italiane, soprattutto alla luce del fatto che l’Unione Europea sta puntando a diventare l’attore politico di riferimento, a livello mondiale, su questi temi, sostituendosi agli Stati Uniti come leadership e promotore del cambiamento.

E le conseguenze di questo già si notano, spiega Luca Fumagalli. “Il mondo ora guarda molto all’Europa sul tema della sostenibilità. Basti pensare che dal prossimo anno nel nostro corso di ingegneria gestionale, nello scambio di studenti avremo probabilmente più studenti americani che vengono al Politecnico di Milano, che studenti italiani che vanno agli Stati Uniti”.

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Michelle Crisantemi

Giornalista bilingue laureata presso la Kingston University di Londra. Da sempre appassionata di politica internazionale, ho vissuto, lavorato e studiato in Spagna, Regno Unito e Belgio, dove ho avuto diverse esperienze nella gestione di redazioni multimediali e nella correzione di contenuti per il Web. Nel 2018 ho lavorato come addetta stampa presso il Parlamento europeo, occupandomi di diritti umani e affari esteri. Rientrata in Italia nel 2019, ora scrivo prevalentemente di tecnologia e innovazione.

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